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Vaccino Covid, da Pfizer a Moderna: come crolla la
protezione dal virus dopo sei mesi

Uno studio ha analizzato l’efficacia di Pfizer-BioNTech, Moderna e Johnson&Johnson a sei mesi dalla fine del ciclo vaccinale: i risultati, vaccino per vaccino

Da quando la variante Delta è diventata predominante a sei mesi dalla fine del ciclo vaccinale anti Covid la protezione dei vaccini dall’infezione cala in modo drastico, in particolare per quanto riguarda il monodose Johnson&Johnson. Lo afferma una ricerca da poco pubblicata su Science. Il team di ricercatori ha analizzato l’efficacia dei tre vaccini approvati negli Stati Uniti (Pfizer-BioNTech, Moderna e Johnson&Johnson, assente AstraZeneca che negli Stati Uniti non è stato approvato) nel proteggere dal contagio, dalla malattia e dalla morte i veterani dell’esercito americano (che rappresentano il 2,7% della popolazione degli Stati Uniti). L’indagine è stata condotta tra il 1° febbraio e il 1° ottobre 2021 su 780.225 veterani.

La protezione nel marzo 2021 e nel settembre 2021
I ricercatori hanno scoperto che all’inizio di marzo, mentre la variante Delta stava prendendo piede negli Stati Uniti , i tre vaccini erano più o meno uguali nella loro capacità di prevenire le infezioni. In particolar è emerso che nel marzo 2021 la protezione dall’infezione era
86,4% per i vaccinati con J&J
86,9% per i vaccinati con Pfizer-BioNtech
89,2% per i vaccinati con Moderna

Ma la situazione è completamente cambiata nel giro di sei mesi, cioé quando la variante è diventata ceppo dominante.

Nel settembre 2021 infatti l’efficacia per quanto riguarda l’infezione era scesa al
13,1% per i vaccinati con J&J
43,3% per i vaccinati con Pfizer-BioNTech
58% per i vaccinati con Moderna

Sorprende il calo così accentuato del vaccino monodose Johnson&Johnson nella protezione dall’infezione. Il Germania, uno degli Stati più colpiti in Europa dalla nuova ondata di Covid, il Robert Koch Institute ha segnalato che circa il 26% dei pazienti è completamente vaccinato, con un numero che sale al 34% per i ricoverati over 60. L’Istituto ha anche reso noto che le infezioni tra i vaccinati sono percentualmente più comuni tra chi è vaccinato con il preparato monodose Janssen. In Italia (dove questo vaccino è stato somministrato a 1,6 milioni di persone) le nuove linee guida indicano che chi si è vaccinato con Johnson & Johnson può fare il richiamo da subito (a prescindere dall’età) a patto che siano passati sei mesi dalla somministrazione del monodose e riceverà un richiamo con Pfizer o Moderna. Negli Stati Uniti la FDA ha autorizzato J&J, raccomandandolo a tutte le persone dai 18 anni in su che hanno ricevuto la prima dose almeno due mesi prima.

Resta alta la protezione dalla morte
Nello stesso studio di Science i ricercatori hanno anche esaminato la protezione dei vaccini dalla morte da Covid e a differenza dal rischio di infezione, l’efficacia nei confronti dei decessi causati da Covid-19 è rimasta alta nel tempo e, come già dimostrato in molti altri studi, i vaccinati hanno un rischio molto più basso di morte dopo aver contratto il virus rispetto ai non vaccinati, anche a distanza di mesi dalla vaccinazione, sebbene siano emerse differenze per età e tipo di vaccino.
(Salute, Corriere)

La terza dose del vaccino Pfizer offre una protezione
quasi totale dal Covid

Dopo soli 7 giorni si arriva al 95,6% di protezione dalle infezioni e vale anche in presenza di variante Delta. In alcuni casi il richiamo non colma solo il calo dell’efficacia che si registra nel tempo, ma raggiunge valori più alti in assoluto

Il New England Journal of Medicine ha pubblicato giovedì il primo studio randomizzato di un richiamo Pfizer somministrato su 10.000 persone, controllato con placebo (il «gold standard» nella ricerca sui farmaci): finora c’erano state solo analisi prive di «gruppi di controllo», perciò con maggiori potenziali fattori di errore.

Alta efficacia dopo 7 giorni
I risultati di questa ricerca, presentati al Comitato consultivo della Food and Drug Administration, mostrano un’efficacia della terza dose pari al 95,6%, molto alta, con 5 casi di infezione da coronavirus nel gruppo vaccinato con la terza dose Pfizer, contro 109 contagi nel gruppo placebo (2 dosi Pfizer, più la terza con placebo). Le cifre ottimistiche sono rafforzate dal fatto che gli anticorpi neutralizzanti sono stati alti nei confronti di tutte le varianti, senza cali particolari verso le «peggiori», Beta e Delta. In più, per raggiungere la massima efficacia della terza dose si è visto che sono bastati solo 7 giorni.

Più di un quinto dei partecipanti allo studio aveva più di 65 anni, categoria più a rischio di Covid grave.

Anche il profilo di sicurezza del vaccino è rimasto «generalmente coerente» con i dati precedenti.

Si raggiunge una protezione che supera quella iniziale
I numeri dell’efficacia riguardano il contagio: la capacità dei vaccini di contrastare decessi e ricoveri è superiore al 90 % (e vicina al 100%) in ogni analisi anche «solo» con le due dosi di vaccino, ma la protezione verso le infezioni si indebolisce e cala dopo sei mesi, soprattutto nelle categorie maggiormente esposte, per cui si rende utile la terza dose.

Grazie a questo studio è possibile pensare che la protezione dopo la terza dose arrivi a essere quasi totale, un risultato ottimo se si pensa che i dati italiani dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno misurato, a sette mesi dalla seconda dose nella popolazione generale, un’efficacia dell’89%, che cala ulteriormente in presenza di Delta e scende ancora nelle persone con comorbidità: dal 75% (dopo 28 giorni dalla seconda dose) al 52% dopo sette mesi. Anche l’efficacia contro l’infezione nelle persone sopra gli 80 anni e nei residenti delle Rsa diminuisce dopo sette mesi (anche se non sotto l’80%).

La terza dose a chi andrà?
In Italia la terza dose viene data, in ordine di priorità, a immunocompromessi, over 80, residenti nelle Rsa, personale sanitario, over 60 e fragili. Si sta pensando, però, a un’estensione alla fascia sotto i 60 anni, ma da gennaio. Il richiamo viene in ogni caso fatto con vaccino Rna. Marco Cavaleri, capo della divisione strategia vaccini dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), ha affermato che l’agenzia valuterà i dati di questo studio per considerare l’ipotesi di ampliare la platea dei richiami, attualmente previsti per le fasce di popolazione più fragili. In Usa la FDA ha dato il via libera a qualsiasi cittadino ad alto rischio Covid per ricevere un’ulteriore dose di qualsiasi vaccino approvato.
(Salute, Corriere)


VACCINI Anti-COVID: QUANTO si è PROTETTI dopo una DOSE?

Un italiano su tre ha ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini contro il SARSCoV-2. Quale grado di immunità offre questa prima iniezione?

Al momento in cui scriviamo oltre 20 milioni di italiani hanno ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini anti-covid disponibili. In un periodo in cui occorre bilanciare l’aumentato rischio posto dalle riaperture con il sollievo di almeno una protezione parziale dalla malattia, quale copertura offre una singola dose dei vari tipi di vaccini? Riprendiamo qui una sintesi dei dati emersi sia nella fase finale dei trial (sperimentazioni) su larga scala, sia nel mondo reale, così come li riporta un articolo di recente uscito su Business Insider).

COME INTERPRETARE LA PERCENTUALE DI EFFICACIA
La percentuale di efficacia dei vaccini si riferisce alla proporzione di persone, tra i vaccinati, che acquisisce una protezione completa dopo un vaccino. L’80% di efficacia, quindi, significa che l’80% delle persone vaccinate sviluppa una protezione completa dalla malattia con sintomi e il 20% no. La seconda dose è comunque fondamentale: nelle persone che già dopo la prima acquistano una protezione completa, la seconda dose garantisce una migliore qualità e durata delle difese immunitarie. Tra chi dopo la prima dose non ha acquisito una protezione completa, alcuni la sviluppano dopo la seconda e alcuni no – ci sono persone che, per una compromissione del sistema immunitario, non mettono in campo difese sufficienti neanche da pienamente vaccinate.

VACCINO DI PFIZER-BIONTECH: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Secondo i documenti della FDA statunitense, basati sulle sperimentazioni di fase 3, il vaccino di Pfizer offre un’efficacia del 52,4% dalla covid con sintomi tra la prima e la seconda dose. Questa percentuale include però anche gli 11 giorni prima delle canoniche due settimane necessarie per innescare una risposta immunitaria adeguata, per cui l’efficacia dopo quella soglia potrebbe essere più alta. Secondo Stephen Evans, professore di statistica medica della London School of Hygiene & Tropical Medicine, gli studi nel mondo reale indicano in modo piuttosto chiaro che una singola dose di vaccino di Pfizer induce una protezione almeno dell’80% e probabilmente migliore del 90%, anche se non è chiaro cosa accada dopo i 21 giorni canonici per la seconda dose, perché questo non è stato pienamente testato. La protezione da ospedalizzazione e morte dovrebbe essere del 100% anche dopo la prima dose, anche se i numeri che giustificano questa affermazione sono molto piccoli.

VACCINO DI MODERNA: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Il vaccino di Moderna dovrebbe offrire un’efficacia del 69,5% tra la prima e la seconda dose, anche se questo valore include i 13 giorni prima del raggiungimento della protezione piena e dunque, la percentuale finale potrebbe essere più elevata. Non è chiaro quanto una singola dose protegga dai casi più gravi, perché poche persone nel gruppo di controllo hanno contratto la malattia in forma severa e non è possibile fare un confronto sensato. Durante i trial il 7% dei vaccinati non ha ricevuto la seconda dose: in queste persone la protezione dalla covid sintomatica è stata del 50,8% fino a 14 giorni dopo la prima dose e del 92,1% dopo 14 giorni. Anche in questo caso, per Evans i dati nel mondo reale mostrano un’efficacia di almeno l’80% e probabilmente migliore del 90% contro la malattia sintomatica dopo una singola dose, per 28 giorni (fino cioè al momento ideale del richiamo). Dopo quella soglia non ci sono dati disponibili.

VACCINO DI OXFORD-ASTRAZENECA: PIÙ DEL 70% DI EFFICACIA
Anche se i dati su larga scala per il vaccino di AstraZeneca sono più incerti, a causa dei diversi impianti sperimentali seguiti nei trial di fase 3, secondo un’importante revisione pubblicata a febbraio su Lancet, una singola dose avrebbe un’efficacia del 76% contro la covid sintomatica per almeno 90 giorni, mentre la protezione contro ricoveri e morte sarebbe del 100% (anche qui i numeri per un confronto sono però esigui). Per Evans, stando agli studi disponibili, una singola dose offre una protezione almeno del 70%, mentre dopo i 90 giorni non ci sono ancora dati a sufficienza.

VACCINO DI JOHNSON & JOHNSON: 66% DI EFFICACIA
Nei trial del vaccino monodose di Johnson & Johnson è stata controllata l’efficacia contro la malattia da moderata a grave e non contro la covid sintomatica come nelle sperimentazioni degli altri vaccini. Inoltre, i test di questo vaccino sono stati i primi a verificare anche l’efficacia contro le varianti. La protezione si innesca al 14esimo giorno e arriva al 66,1% di efficacia a 28 giorni. Le percentuali variano a seconda della variante prevalente: quando sono stati effettuati i test, negli USA l’efficacia era del 72%, in Sud Africa del 64%, in Brasile del 68%.

UNA SINGOLA DOSE RIDUCE DI MOLTO LA CATENA DEI CONTAGI
Oltre all’importanza di non essere direttamente contagiati c’è anche la possibilità, con il proprio vaccino, di proteggere familiari e amici non ancora vaccinati. Studi effettuati nel Regno Unito dimostrano che una dose dei vaccini di Pfizer e AstraZeneca riduce del 65% i contagi. Inoltre, anche chi viene contagiato contrae la malattia con una ridotta carica virale e corre un rischio dimezzato di trasmetterla a sua volta. Studi in corso nel Regno Unito, dove si sta diffondendo la variante indiana, mostrano però come per contrastare più efficacemente le varianti di coronavirus occorrano entrambe le dosi dei vaccini.
(Salute, Focus)

MASCHERINE CON IL CALDO: i consigli dei dermatologi per aiutare la pelle

Una «convivenza complicata» soprattutto per i pazienti con acne, dermatite, rosacea, che possono peggiorare. Irritazioni specie in chi deve indossarle molte ore

Nonostante diano fastidio a molti, le mascherine restano uno dei presidi fondamentali per limitare la diffusione del coronavirus. Decisive per proteggere sé stessi e gli altri, creano comunque disagio sia nel respirare (ancor di più con l’arrivo del caldo) sia alla pelle, soprattutto a chi già soffre di problemi cutanei. Diverse indagini hanno fatto messo in evidenza un aumento di acne, rosacea, dermatiti e irritazioni varie, sia in pazienti che già ne soffrivano prima e hanno visto peggiorare la loro situazione nelle aree del viso, sia in persone che non avevano mai avuto disturbi. Per aiutare la «convivenza complicata» con questi importanti presidi anti-Covid gli esperti della Società italiana di dermatologia e malattie sessualmente trasmissibili hanno messo a punto un vademecum con poche, semplici regole utili per arginare i fastidi e aiutare a restituire un aspetto sano a quello che è stato definito «covidface»:
un viso che può invecchiare anche di cinque anni in pochi mesi di pandemia con accentuazione di borse, occhiaie, rughe, pelle avvizzita, sguardo spento.

«Maskne» per chi usa la mascherina molte ore al giorno Oltre alle conseguenze di tipo estetico, a livello internazionale gli esperti hanno iniziato ormai a parlare anche di «maskne», termine che deriva dalla fusione di «mask» (mascherina in inglese) e acne. E con la bella stagione ci si aspetta un aumento di casi, perché il caldo peggiora i disturbi che sempre più pazienti lamentano a livello cutaneo: prurito, bruciori, eritemi, desquamazione della cute. La situazione peggiora se si indossa la mascherina per molte ore al giorno e se si soffre di malattie cutanee preesistenti come l’acne, che pur essendo un disturbo tipicamente adolescenziale interessa il 15% degli adulti, o la rosacea che colpisce più di 3 milioni di italiani. «Studi clinici hanno recentemente evidenziato che indossare mascherine continuativamente e per un tempo prolungato acutizzerebbe l’acne o altre irritazioni della pelle preesistenti o latenti — dice G. Fabbrocini. Il 90% dei pazienti infatti attribuisce il peggioramento di acne e rosacea all’uso della mascherina e un 30% dichiara che la patologia si è slatentizzata o riacutizzata a causa della stessa. L’uso della mascherina per molte ore al giorno determina un’occlusione che può provocare l’alterazione del microbiota cutaneo e quindi del film lipidico».

Più attenzione all’igiene cutanea
Su una cosa tutti i dermatologi concordano: rispetto all’emergenza pandemica che stiamo vivendo, la maskne costituisce un effetto collaterale trascurabile se valuta il rapporto costo-beneficio derivante dall’uso della protezione dall’infezione. Servono solo piccole accortezze, facendo ancora più attenzione all’igiene cutanea e utilizzando i giusti prodotti dermocosmetici che possano aiutare a spegnere l’infiammazione. «Ma le ricadute sulla pelle vanno curate e non sottovalutate, per evitare che si tenda a non indossare la mascherina, fondamentale nella protezione da contagio da Sars-CoV-2. Mi preme sottolineare che dovendo tenere la mascherina sul viso tutto il giorno bisogna fare molta attenzione quando si applicano le creme il cui effetto occlusivo non va tralasciato. Per cui va “calibrata” bene la terapia antiacne, spesso aggressiva, con la routine quotidiana» dice l’esperta. Insomma, è necessario prestare maggior cura nello spalmare la crema utilizzata, massaggiandola bene per farla assorbire prima di mettere la mascherina perché altrimenti si crea una doppia copertura eccessiva, che non consente alla cute di respirare.

I consigli dei dermatologi
Gli esperti nel vademecum appena presentato, consigliano di

  • indossare sempre mascherine certificate CE bianche, in tessuti naturali o anallergici che possano aiutare la pelle a respirare, evitando quelle in tessuti sintetici.
  • Cambiare o lavare con regolarità la mascherina, utilizzando detergenti neutri o prodotti biologici ed anallergici.
  • Cercare di evitare il trucco se si sa di dover portare la mascherina per un periodo prolungato.
  • Prestare la massima cura alla scelta dei prodotti per la routine di pulizia e idratazione: per esempio, la mattina, al risveglio, partire da una detersione mirata con detergenti leggermente più acidi e seboregolatori, ma sempre delicati.
  • Applicare quindi prodotti topici non comedogenici (ovvero che non favoriscano l’insorgenza di punti neri, brufoli e altre impurità) e farli assorbire completamente prima di indossare la mascherina: l’idratazione della pelle è fondamentale, meglio applicare la crema quindi almeno una mezzora prima di indossare la mascherina.
  • Inoltre con l’arrivo dell’estate non si deve dimenticare un filtro solare perché i raggi solari attraversano anche i tessuti.
  • Per prevenire danni tipo abrasioni o irritazione, spiegano i dermatologi, si può usare una medicazione idrocolloide da posizionare sotto le palpebre o sul dorso del naso.
  • Ed è utile fare attenzione all’alimentazione, evitando tutto ciò che contribuisce a «infiammare» (come troppi zuccheri, grassi o alcolici) e se si presentano problemi, o si aggravano le malattie cutanee di cui si soffre, meglio parlarne subito con il medico specialista.

Dermatite e rosacea possono peggiorare
«Le dermatiti possono essere causate per esempio dalla composizione dell’elastico o dalla sensibilità al metallo utilizzato per modellare la mascherina sul naso — spiega Pasquale Frascione, vicepresidente SIDeMaST —. Ma possono essere attribuite anche all’utilizzo non appropriato della mascherina: se la si porta molto a lungo (oltre sei ore consecutive) o si usa più volte la stessa potremmo avere delle reazioni allergiche perché possono essere presenti tracce di cosmetici contenenti conservanti e coloranti. Oppure possono restare attaccati dei detergenti se, una volta lavata, non sia stata ben sciacquata oppure, nel caso sia stata disinfettata con uno spray detergente, non sia ancora asciutta». Anche la rosacea può aggravarsi con l’uso delle mascherine: «Il peggioramento è dovuto a quello che potremmo definire un effetto “occlusivo o di condensa”, destinato purtroppo ad aumentare a causa del caldo, che è il primo nemico della rosacea — conclude Ketty Peris, presidente SIDeMaST —. Il vapore acqueo prodotto dal respiro infatti si trasforma in liquido che non riesce ad asciugarsi (quindi a far respirare la pelle) perché è effettivamente bloccato dalla mascherina. Per questo motivo l’irritazione sul viso compare o peggiora e, poiché in questo periodo le temperature aumentano, cresce anche la sensazione di calore e fastidio. Facile intuire quindi quanto queste condizioni possano portare a un peggioramento della rosacea».
(Salute, Corriere)

Perché ci sono Positivi anche tra i VACCINATI?

Su 10 immunizzati, almeno uno prende il virus lo stesso. “Ma nessuno in forma grave”.

Da quando è iniziata la campagna vaccinale si è detto di tutto e di più. Siamo stati travolti da un flusso infinito di informazioni contrastanti, in parte vere e in parte false. A essere messa in dubbio è stata anche l’efficacia dei vaccini e la loro stessa sicurezza. La verità è che sono ancora molte le domande che rimangono aperte, come ad esempio la durata dell’immunità offerta dal vaccino. Domande a cui la scienza potrà rispondere solo con il tempo. A molte altre invece abbiamo già una risposta, seppur parziale, che può essere utili e a chiarire alcuni dei più diffusi dubbi.

Perché ci sono vaccinati che risultano positivi?
“Il vaccino non è stato sviluppato per proteggere le persone dall’infezione, ma dalla malattia” spiega Massimo Andreoni, primario del reparto di Malattie Infettive del Policlinico di Tor vergata di Roma. Per cui può succedere che una persona vaccinata risulti positiva al test, anche se si tratterebbe comunque di un’eventualità non molto comune. Dai dati aggiornati sulla protezione dal’infezione asintomatica dei vaccinati emerge che solo 1-2 persone vaccinate su 10 rischiano di infettarsi. L’80-90% delle persone, quindi, risulta protetto anche dall’infezione asintomatica.

Un Vaccinato può ammalarsi gravemente?
“E’ davvero molto improbabile. i dati che abbiamo indicano che le persone vaccinate, con un qualsiasi dei tre vaccini attualmente approvati, hanno oltre il 90% di probabilità di non sviluppare forme gravi della malattia.

Chi si è vaccinato può contagiare gli altri?
“Anche in questo caso sarebbe molto improbabile. O almeno è così per gli altri vaccini che usiamo da ormai da tantissimo tempo. Perché per diventare contagiosi, è necessario che il virus si replichi un certo numero di volte. Se non lo fa perché si è vaccinati, di conseguenza né si sviluppa la malattia è né si diventa contagiosi.

Perché alcuni vaccinati non hanno anticorpi?
Succede, anche se in pochi casi, che dopo aver ricevuto il vaccino si risulti negativi al test sierologico. Ma non significa che il vaccino sia inutile. Il test sierologico individua gli anticorpi sviluppati a seguito della vaccinazione che si trovano in circolo nel sangue ma che non sono la sola misura dell’immunità di una persona al virus. Una persona quindi potrebbe non avere anticorpi visibili al test sierologico e avere lo stesso una memoria immunitaria del virus una volta che lo incontra: ci sono infatti delle cellule, responsabili della memoria immunologica, che si attivano e aggrediscono le cellule infette o producono anticorpi utili soltanto quando l’organismo viene esposto al virus contro il quale hanno “imparato a difendersi”.

Dura di più l’immunità dei guariti o dei vaccinati?
Non è stata ancora possibile determinare la durata dell’immunità, sia quella offerta da una precedente infezione che dal vaccino. Sappiamo però che gli anticorpi in circolo – a seguito dell’infezione possono durare meno rispetto a quelli stimolati dal vaccino. Questo comunque non esclude che il nostro sistema immunitario possa aver sviluppato una memoria non visibile al test sierologico anche in caso di guarigione.
(Salute, Il Messaggero)

Cos’è la TROMBOSI, e quali sono le CAUSE?

In questi giorni se ne è parlato per il sospetto che ci sia un legame tra casi di embolia e vaccinazione anti-Covid con il vaccino di AstraZeneca: ma non ci sono prove di quel legame. Ecco che cosa sono i trombi, perché si formano, e perché il vaccino AstraZeneca continua a essere ritenuto sicuro

Tutti i virus, incluso Sars-CoV-2, il coronavirus che causa il Covid, scatenano nell’organismo una reazione infiammatoria. Quella reazione può essere più o meno violenta. Quando si sviluppa un’infezione o un processo infiammatorio, il sangue aumenta la propria tendenza a coagulare e può succedere che si formino trombi nelle arterie e nelle vene, in qualunque parte del corpo. La trombosi arteriosa di solito si verifica a livello di arterie dove si è depositata la placca aterosclerotica (costituita da colesterolo, cristalli di calcio, cellule infiammatorie). Se la parete superficiale della placca si rompe, si forma un coagulo/trombo, che può diminuire o interrompere il flusso sanguigno. A seconda dell’arteria interessata, le conseguenze sono diverse: ictus ischemico, infarto o arteriopatia periferica.

I sintomi dell’ictus ischemico: debolezza o intorpidimento di faccia, braccia o gambe, soprattutto di un lato del corpo; confusione, difficoltà nel parlare e nel capire; problemi alla vista; vertigini, difficoltà a camminare; fortissimo mal di testa senza una causa apparente.

I sintomi dell’infarto cardiaco: dolore o senso di costrizione al centro del petto che può irradiarsi alle aree circostanti, mancanza di fiato, nausea, pallore, intensa sudorazione.

I sintomi dell’arteriopatia periferica: il sintomo più caratteristico è la «claudicatio intermittens», un dolore muscolare violento, che impedisce di camminare.

La trombosi venosa si verifica quando nelle vene si forma un trombo, che rallenta il flusso di sangue venoso verso cuore e polmoni. Interessa soprattutto le gambe, ma può riguardare anche braccia, vene addominali o cerebrali. Quando riguarda le vene profonde viene chiamata «trombosi venosa profonda« e questa, se non riconosciuta e curata, può causare l’embolia polmonare. I sintomi della trombosi venosa profonda sono dolore all’arto interessato (in genere la gamba), gonfiore e, a volte, arrossamento.

L’embolia polmonare si ha quando un embolo (nato dalla rottura di un trombo) viaggia nel sangue e viene spinto dal cuore nel sistema circolatorio polmonare, in alcuni casi provocando morte improvvisa. I sintomi più comuni dell’embolia polmonare: forte dolore al petto, difficoltà di respiro, tosse con tracce di sangue nel catarro e accelerazione o irregolarità del battito cardiaco. Questi sintomi vanno sempre indagati, soprattutto se si accompagnano a dolore o gonfiore a una gamba. Purtroppo non sono rari i casi in cui l’embolia polmonare non dà alcun segno di sé oppure si presenta solo con una strana sensazione di fiato corto e di fatica a respirare.

Le cause che predispongono alla tromboembolia venosa sono genetiche o transitorie (interventi chirurgici, ricoveri ospedalieri, allettamento e febbre, gravidanza, parto, terapie ormonali, tumori, chemioterapia). Anche la polmonite, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e alcuni tipi di anemia su base ereditaria (come l’anemia falciforme) comportano un rischio aumentato, in particolare di tromboembolia polmonare. La tromboembolia venosa è, tra gli eventi cardiovascolari, la prima causa di morte nel mondo. In particolare, la tromboembolia polmonare colpisce 1-2 persone su mille ogni anno in Europa: su 100 persone colpite, 10 perdono la vita.

Perché si parla di trombosi
Negli ultimi giorni si è parlato di trombosi in relazione ad alcune decisioni prese da parte delle autorità del farmaco di diversi Paesi (tra cui l’Italia) di sospendere l’utilizzo di alcuni lotti del vaccino contro il Covid di AstraZeneca. In alcuni casi l’uso del vaccino è stato sospeso tout court, per alcuni giorni.

Ma ci sono prove di un legame tra l’uso del vaccino e gli eventi tromboembolici?
Secondo l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, «il numero di eventi tromboembolici nelle persone vaccinate non è superiore a quello osservato nella popolazione generale. Al 10 marzo 2021, sono stati segnalati 30 casi tra quasi 5 milioni di persone vaccinate con AstraZeneca nello Spazio economico europeo ». Secondo l’Oms, non c’è alcun motivo per smettere di somministrare il vaccino. L’Oms sta valutando le segnalazioni arrivate nei giorni scorsi, ma afferma che i benefici del vaccino superano i rischi e che finora non sono stati riscontrati casi di morte causati da vaccini anti-Covid. La stessa AstraZeneca ha sottolineato che, da un’analisi dei dati su oltre 10 milioni di somministrazioni, «non è emersa alcuna prova di un aumento del rischio di embolia polmonare o trombosi venosa profonda in qualsiasi gruppo di età, sesso, lotto o in qualsiasi Paese in cui è stato utilizzato il vaccino».

Quali sono le indagini in corso E le indagini, allora?
Occorre procedere con calma. In alcuni Paesi (Danimarca, Norvegia, Islanda) la campagna vaccinale è stata sospesa per alcuni giorni in via precauzionale. Altri Paesi (Austria, Estonia, Lituania, Lussemburgo e Lettonia) hanno sospeso l’uso dei vaccini provenienti da un solo lotto, ABV5300, non distribuito in Italia: ma hanno deciso di continuare a usare regolarmente tutti gli altri lotti di vaccino. In molti altri Paesi — dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania alla Spagna all’Italia — la campagna prosegue senza problemi. In Italia l’Agenzia del farmaco ha emesso — va ribadito: in via precauzionale — un divieto di utilizzo di un solo lotto, denominato ABV2856, distribuito in tutte le Regioni, dopo la segnalazione di «eventi avversi» per i quali non è ancora accertato alcun legame causale con il vaccino. Secondo i primi accertamenti — ma gli esami sono ancora in corso — quegli eventi erano legati a trombosi e coaguli del sangue. In tutti i casi sono state aperte inchieste. L’Ema — pur sottolineando che il rischio di coaguli di sangue non è maggiore nelle persone vaccinate rispetto alla popolazione generale — ha avviato delle indagini e sta esaminando tutti i casi segnalati. «Nessun nesso causa-effetto tra vaccino e trombosi» «La cosa che ha attirato maggiormente l’attenzione è il fatto che i soggetti erano in buona salute e abbastanza giovani, ma anche all’interno di quella fascia d’età ci possono essere casi di morte. Il tromboembolismo, che è la causa di morte più accreditata, ha una percentuale dello 0,007 per mille rispetto alla casistica vaccinale mondiale, sui dati che si stanno raccogliendo. Mi sento di tranquillizzare: in quella giornata, in quella fascia di età, quanti pazienti sono morti per trombosi? Questo va chiarito».
(Salute, Corriere)

VACCINI Anti-COVID: Perché Andranno Periodicamente Aggiornati

Gli anticorpi dei guariti e derivanti dai vaccini sono meno efficaci sulle varianti sudafricana e brasiliana: per neutralizzarle ne servono di più.

Per neutralizzare alcune delle nuove e diffuse varianti di coronavirus potrebbe servire una quantità di anticorpi maggiore di quella che proteggeva dalle passate infezioni. Pertanto gli anticorpi dei guariti, quelli sollecitati dai vaccini e i monoclonali potrebbero risultare meno capaci di proteggere dalle infezioni causate dalle nuove versioni del SARS-CoV-2. A lanciare l’allarme è uno studio (pubblicato su Nature Medicine) che dopo aver testato l’efficacia di anticorpi di diversa origine contro le tre principali varianti di coronavirus (Inglese, Sudafricana e Brasiliana) ha fatto intendere che potrebbe presto essere necessario aggiornare i vaccini di prima generazione.

NON ABBASTANZA
«C’è un’ampia variabilità nella quantità di anticorpi che una persona produce in risposta alla vaccinazione o all’infezione naturale. Ci sono persone che ne producono livelli molto elevati e risulterebbero probabilmente protetti anche dalle nuove varianti, ma altri, e in particolare penso ad anziani e immuno-compromessi, potrebbero non produrne abbastanza: se il livello di anticorpi necessari per essere protetti si decuplica, come indicano i nostri dati, allora potrebbero non averne abbastanza» La preoccupazione degli scienziati è che con la diffusione delle nuove varianti, proprio i più fragili non siano sufficientemente protetti dal contagio.

UN OSSO DURO
Il virus, ormai lo sappiamo, attacca le cellule usando come chiave la proteina spike, il bersaglio principale dei vaccini anti-covid e dei farmaci a base di anticorpi monoclonali. Benché i virus mutino continuamente, soltanto dall’inverno 2020 sono state individuate varianti con diverse mutazioni nei geni che codificano per la proteina spike, teoricamente pericolose perché potrebbero diminuire l’efficacia di vaccini e farmaci che prendono di mira proprio quell’obiettivo. Le varianti più sorvegliate, e anche quelle studiate nello studio, sono la B.1.1.7 (inglese), B.1.135 (sudafricana) e B.1.1.248 o P.1 (brasiliana), già individuate anche nel nostro Paese.

MAGGIORI QUANTITÀ
Gli scienziati per valute l’efficacia dei vaccini hanno messo a contatto virus delle tre diverse varianti con anticorpi del sangue di convalescenti da CoViD-19 o di persone che erano state immunizzate con il vaccino di Pfizer. Fortunatamente, per neutralizzare la variante Inglese è servita la stessa quantità di anticorpi necessaria per l’originale SARS-CoV-2. per le varianti brasiliana e sudafricana sono stati necessari anticorpi in quantità decisamente superiore, da 3 volte e mezzo a 10 volte più abbondanti.
(Salute, Focus)

Dopo il VACCINO: come capire se si è IMMUNI alla Covid?

In futuro avremo test immunitari per capire quando somministrare i richiami. Nel frattempo, è fondamentale non comportarsi come se si fosse immuni al virus.

Una volta ricevuto il vaccino, come faremo a sapere se siamo immuni alla covid? Tanto per cominciare, perché per liberarci dalla pandemia occorre comunque vaccinare il maggior numero di persone possibile, e concentrarsi sull’ampia protezione offerta dai vaccini: tutti quelli approvati finora, anche quelli con efficacia più ridotta, offrono una protezione pressoché totale contro le forme gravi e letali della malattia. In secondo luogo, perché anche da immuni non potremmo permetterci di abbassare la guardia finché la maggior parte delle persone non sarà vaccinata.

LE VARIANTI DEL VIRUS
Conoscere il livello di protezione immunitaria di ciascuno potrebbe però essere utile in una fase successiva, per valutare se e quando effettuare un richiamo o capire se i vaccinati siano anche protetti contro le varianti del virus. Come ci si sta muovendo, su questo fronte? Come spiegato sul New Scientist, alcuni test sierologici rapidi usati per individuare le infezioni naturali da coronavirus possono tornare utili per rintracciare gli anticorpi prodotti in risposta ai vaccini dopo tre settimane dalla prima iniezione (il momento in cui inizia a manifestarsi una risposta immunitaria).

I SIEROLOGICI NON BASTANO
La maggior parte di questi test ricerca gli anticorpi che rispondono alla proteina Spike e, una volta trovati, non riesce a distinguere tra anticorpi dovuti al vaccino o conseguenti a un’infezione. Alcuni, però, ricercano gli anticorpi che riconoscono la proteina virale del nucleocapside che non è contenuta nei vaccini, e quindi non registrerebbero la presenza di una risposta immunitaria conseguente al vaccino. Inoltre, i test commerciali hanno comunque un margine di incertezza, con un 10% di responsi “falsi negativi” (non registrano anticorpi anche dove ci sono), e un 2% di “falsi positivi” (li trovano, ma in realtà non ci sono). Un altro problema è che i test rapidi sierologici misurano semplicemente la presenza o l’assenza di anticorpima non la loro quantità che diminuisce nel tempo.

INDAGINI PIÙ COMPLETE
In futuro serviranno test rapidi che rivelino il livello di anticorpi nei vaccinati e la protezione che queste difese offrono contro le varianti del coronavirus. Alcune compagnie di biotecnologie nel Regno Unito e in Germania stanno lavorando a strumenti diagnostici che rilevino non solo gli anticorpi neutralizzanti ma anche le altre componenti chiave del sistema immunitario, come i linfociti T, che prendono di mira direttamente le cellule infettate dal virus, e i linfociti B della memoria incaricati di produrre anticorpi indirizzati contro specifiche proteine virali. Nel frattempo, neanche i vaccinati dovrebbero comportarsi da immuni. Finché non saremo usciti dalla fase critica della pandemia è prudente trattare tutti come persone suscettibili se non alla malattia, almeno al contagio e alla trasmissione. Non sappiamo in che misura i vaccini riducano anche la circolazione asintomatica del virus.

MASSIMA PRUDENZA
Proprio per questo il Ministero della Salute in Italia ha indicato che anche i vaccinati entrati in contatto con un positivo debbano mettersi in isolamento fiduciario per dieci giorni, ed effettuare un tampone di controllo prima di tornare alla vita “normale”. Anche i vaccinati potrebbero infatti risultare positivi, come osservato su alcuni sanitari già immunizzati con Covid ma del tutto asintomatici. Non sappiamo se un vaccinato contagiato possa trasmettere il virus a sua volta, ma non possiamo concederci questo rischio.
(Salute, Focus)

Covid-19, letalità su casi confermati è del 2,4% nella seconda fase epidemica

Differenze tra regioni si riducono se si tiene conto della demografia e della diffusione del virus nel tempo

ISS, 1 febbraio 2021 – La letalità del Covid-19 in Italia nella seconda fase dell’epidemia è del 2,4%, più bassa rispetto a quella della prima fase durante la quale però l’accessibilità rallentata ai test diagnostici e la diversa distribuzione geografica dei casi potrebbero aver fornito un dato distorto. Il calcolo è contenuto in un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità appena pubblicato, dove sono presentate anche le stime a livello regionale e in riferimento alle diverse fasi dell’epidemia, da cui emerge che le differenze tra regioni appaiono meno evidenti alla luce delle differenze della struttura demografica e della diffusione dell’epidemia nel tempo. Secondo il report tra i casi confermati diagnosticati fino a ottobre, la percentuale di decessi standardizzata per sesso ed età (il cosiddetto ‘Case Fatality Rate o CFR) è stata complessivamente del 4,3%, con appunto ampie variazioni nelle diverse fasi dell’epidemia: 6,6% durante la prima fase (febbraio-maggio), 1,5% nella seconda fase (giugno-settembre) e 2,4% tra i casi diagnosticati nel mese di ottobre.

I dati regionali
Lo studio è stato condotto utilizzando il database dei casi COVID-19 confermati con test molecolare e notificati al sistema di sorveglianza da inizio epidemia (20 febbraio 2020) al 31 Ottobre 2020 dalle regioni/PA. In particolare, sono stati conteggiati i decessi avvenuti entro 30 giorni dalla diagnosi, e il CFR è stato calcolato standardizzando i tassi per tener conto delle differenze regionali nella struttura demografica della casistica.

Il CFR standardizzato presenta una variabilità a livello regionale, con i più alti valori osservati in Lombardia (5,7%) ed Emilia-Romagna (5,0%), mentre i livelli più bassi sono stati osservati in Umbria (2,3%) e Molise (2,4%). “Nell’interpretare le differenze regionali di CFR è importante tenere in considerazione la tempistica con cui l’epidemia si è manifestata nei diversi ambiti territoriali. L’epidemia ha colpito prevalentemente l’area settentrionale del Paese durante la prima ondata (febbraio-maggio), per poi estendersi più diffusamente sull’intero territorio nazionale nelle fasi successive – si legge nel documento – Questa disparità nella distribuzione dei casi nel tempo potrebbe spiegare parte delle differenze del CFR regionale riferite all’intero periodo esaminato”. Alcune delle differenze regionali che emergono dall’analisi condotta sull’intero periodo (febbraio-ottobre) appaiano infatti meno pronunciate e talvolta invertite quando i CFR regionali sono confrontati separatamente per ciascuna fase epidemica.

Il confronto con l’Europa
I dati disaggregati per sesso, classe di età e fase epidemica, così come analizzati in questo rapporto, non sono disponibili per altri paesi Europei e pertanto non è metodologicamente corretto eseguire un confronto del CFR per paese. È comunque opportuno notare che i CFR standardizzati utilizzando la popolazione europea standard come riferimento sono risultati inferiori a quelli calcolati usando come riferimento la popolazione Italiana residente. Questo suggerisce che la struttura per età relativamente più anziana della popolazione Italiana possa spiegare in parte le eventuali differenze con gli altri Paesi.

L’unico confronto possibile a livello internazionale è basato sull’eccesso di mortalità registrato durante l’epidemia rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. Le stime fornite da Eurostat riguardo la variazione percentuale dei decessi registrati nel periodo Febbraio-Ottobre 2020 rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dei quattro anni precedenti mostrano come l’Italia, rispetto alla stima complessiva riferita ai 27 paesi membri dell’UE, abbia avuto, a eccezione della prima ondata epidemica, un eccesso di mortalità inferiore alla media Europea (13,1% vs 17,1% nel mese di ottobre).

Cos’è il Case Fatality Rate
In alcuni casi la letalità, ossia la proporzione di decessi che si verificano in una popolazione infetta, è stata calcolata utilizzando dati aggregati cumulati riferiti ai casi e decessi notificati a una certa data. Questa tipologia di stima può però risentire di distorsioni. Le stime puntuali e il loro confronto nello spazio e nel tempo possono ad esempio essere distorte da differenze e modificazioni nell’accessibilità ai test diagnostici. Ad esempio, una ridotta capacità di tracciamento di casi asintomatici conduce a una di sottostima della popolazione infetta esposta al rischio di morte e alla conseguente sovrastima della letalità. In questi casi, è più appropriato utilizzare il termine case fatality rate (CFR) che è calcolato esclusivamente sulla popolazione dei casi noti, ossia quelli diagnosticati e notificati. Inoltre, l’utilizzo di dati aggregati cumulati a una certa data non tiene conto dell’intervallo di tempo che intercorre tra la diagnosi e l’eventuale decesso. In questa circostanza, i casi per i quali l’infezione è relativamente recente da non aver ancora potuto manifestare eventuali complicazioni fatali sono conteggiati nella popolazione infetta a rischio di decesso, causando così una sottostima del CFR. Mentre il primo limite non può essere superato con i dati a disposizione, l’analisi presentata in questo rapporto è basata su dati individuali riferiti ai casi per i quali, tenuto conto di un possibile ritardo nell’aggiornamento delle informazioni, il tempo di osservazione del decorso clinico è stato di almeno 30 giorni dalla diagnosi.

Cliccando qui di seguito è possibile leggere per intero il rapporto dell’ istituto superiore di sanità CASE FATALITY RATE

Vaccino Covid 19: chi ha già avuto la malattia dovrà vaccinarsi?

Chi è già stato positivo al Covid-19 e l’ha sconfitto deve vaccinarsi? Ecco le risposte degli esperti italiani e stranieri.

Una delle domande più gettonate relative al vaccino anti-Covid 19 che sta per arrivare è: chi è già risultato positivo e ha superato la malattia deve vaccinarsi o è da considerarsi già immune? Gli esperti hanno provato a rispondere a questo interrogativo, ma per ora le risposte non sono concordanti.

In Italia su questo argomento oggi si è espresso il Prof. Giuseppe Ippolito, che è il direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma e ha detto:

Chi ha avuto il Covid non deve vaccinarsi contro la malattia perché ha sviluppato anticorpi naturali, semmai dovrà controllare il livello di questi anticorpi. E quando questi dovessero scendere, si può riconsiderare una vaccinazione.

VACCINO ANTI-COVID 19: BASSA PRIORITÀ PER CHI HA AVUTO IL VIRUS

Giuseppe Nocentini, immunofarmacologo dell’Università di Perugia, membro Società Italiana Farmacologia, al Corriere della Sera ha detto:

Al momento è opportuno che chi ha avuto la malattia non si vaccini. Sarà opportuno farlo solo una volta che avremo dati su questo sottogruppo di soggetti. In ogni caso questi pazienti hanno una bassa priorità: è ragionevole supporre che siano protetti da una re-infezione o, almeno, dalle complicanze dell’infezione

Nocentini ha spiegato meglio anche quello che ha detto Ippolito e cioè che bisogna fare un monitoraggio con i test sierologici per misurare gli anticorpi. Questo monitoraggio andrebbe fatto ogni tre mesi e il paziente potrebbe farlo da solo poi decidere se fare il vaccino oppure no, ma, secondo lo stesso Cnocentini, è un’opzione poco raccomandabile.

Il Corriere della Sera ha sentito anche Sergio Abrignani, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare Romeo ed Enrica Invernizzi. A lui, in particolare, è stato chiesto cosa dovrebbe fare chi non sa se ha effettivamente avuto il Covid, perché potrebbe essere rimasto sempre asintomatico. Abrignani ha risposto:

Ci sono due tipi di persone: chi ha avuto il Covid e lo sa e chi ha avuto il Covid ma non lo sa, perché l’ha preso in forma asintomatica. Circa metà delle persone che hanno fatto il Covid non sanno di averlo fatto, soprattutto in zone come la Lombardia. Dato che non faremo il sierologico a tutti quelli che vacciniamo, è ovvio che avremo una parte di popolazione vaccinata che ha già fatto l’infezione. Non c’è alcuna evidenza immunologica per ora che chi ha avuto l’infezione naturale non si debba vaccinare, anzi potrebbe essere un potenziamento della risposta immunitaria. La maggior parte dei vaccini prevede più dosi: potremmo considerare l’infezione naturale come la prima dose e quindi, dove sapessimo di una precedente positività al Covid, fare il primo vaccino come fosse la “seconda dose”, una volta sola.

Abrignani dunque introduce l’ipotesi di farsi somministrare una sola dose, invece delle due previste e comunque resta dell’opinione che, per sicurezza, anche chi è già stato malato andrebbe vaccinato, ma aggiunge:

Certamente non avrebbero la priorità, come scelta dal punto di vista logistico, ma dal punto di vista immunologico non c’è nessun problema. Anche perché non sappiamo quanto dura l’immunità naturale e mi sembra più complesso andare a misurare gli anticorpi di chi ha fatto infezione, rispetto a vaccinare queste persone. Succede anche per le altre vaccinazioni, l’epatite B e altre infezioni. Il vaccino influenzale lo facciamo anche a chi ha fatto l’influenza.

Proprio quello dell’immunità naturale è uno dei grandi dubbi che attanagliano gli scienziati, ma anche il vaccino stesso, come ha confermato il consigliere scientifico del Ministro della Salute per la pandemia da coronavirus e rappresentante dell’Italia in seno al Consiglio Esecutivo dell’OMS Walter Ricciardi“darà probabilmente solo un’immunità temporanea e non permanente, quindi ci dovremo vaccinare più volte”.

NEGLI USA ANCORA DUBBI SUL VACCINO PER CHI È GIÀ STATO MALATO

La stessa domanda se la sono posta negli Stati Uniti e il Centers for Disease Control and Prevention, nelle sue FAQ sul coronavirus, risponde:

Non ci sono abbastanza informazioni attualmente disponibili per dire se o per quanto tempo dopo l’infezione qualcuno è protetto dal COVID-19 grazie a quella che si chiama immunità naturale. Le prime evidenze scientifiche suggeriscono che l’immunità naturale da COVID-19 potrebbe non durare molto a lungo, ma sono necessari ulteriori studi per capirlo meglio. Fino a quando non avremo un vaccino disponibile e il Comitato consultivo per le pratiche di immunizzazione non fornirà raccomandazioni al CDC su come utilizzare al meglio i vaccini COVID-19, il CDC non può dire con certezza se le persone che hanno già avuto il COVID-19 debbano fare il vaccino anti-COVID-19 oppure no.

ANTHONY FAUCI: “FATE IL VACCINO ANCHE SE AVETE GIÀ AVUTO IL COVID”

Sempre restando negli Stati Uniti, colui che è considerato il massimo esperto in materia, il Dottor Anthony Fauci, tanto odiato da Donald Trump, ha detto che secondo lui è meglio che anche chi ha già avuto la malattia si faccia vaccinare e ha spiegato:

La decisione finale spetterà alla FDA, perché sappiamo che c’era una certa percentuale di persone che erano nella sperimentazione del vaccino che avevano prove di essere state precedentemente infettate. Quindi dobbiamo vedere quale è stato il risultato per quegli individui. Penso che sia del tutto lecito pensare che non dovrebbe esserci alcuna restrizione nei confronti di coloro che hanno prove di essere stati infettati.

Inoltre anche Fauci ha detto che non ci sono certezze sulla durata dal vaccino e ha commentato dicendo che sarebbe sorpreso se durasse 20 anni, ma sarebbe altrettanto sorpreso se durasse meno di un anno, perciò crede che la durata possa essere di più di un anno, ma chiaramente per ora non c’è certezza.

Fonte: https://www.blogo.it/post/vaccino-covid-19-per-chi-lo-ha-gia-avuto