fbpx

Archivio dei tag SARS-CoV-2

VACCINI Anti-COVID: Perché Andranno Periodicamente Aggiornati

Gli anticorpi dei guariti e derivanti dai vaccini sono meno efficaci sulle varianti sudafricana e brasiliana: per neutralizzarle ne servono di più.

Per neutralizzare alcune delle nuove e diffuse varianti di coronavirus potrebbe servire una quantità di anticorpi maggiore di quella che proteggeva dalle passate infezioni. Pertanto gli anticorpi dei guariti, quelli sollecitati dai vaccini e i monoclonali potrebbero risultare meno capaci di proteggere dalle infezioni causate dalle nuove versioni del SARS-CoV-2. A lanciare l’allarme è uno studio (pubblicato su Nature Medicine) che dopo aver testato l’efficacia di anticorpi di diversa origine contro le tre principali varianti di coronavirus (Inglese, Sudafricana e Brasiliana) ha fatto intendere che potrebbe presto essere necessario aggiornare i vaccini di prima generazione.

NON ABBASTANZA
«C’è un’ampia variabilità nella quantità di anticorpi che una persona produce in risposta alla vaccinazione o all’infezione naturale. Ci sono persone che ne producono livelli molto elevati e risulterebbero probabilmente protetti anche dalle nuove varianti, ma altri, e in particolare penso ad anziani e immuno-compromessi, potrebbero non produrne abbastanza: se il livello di anticorpi necessari per essere protetti si decuplica, come indicano i nostri dati, allora potrebbero non averne abbastanza» La preoccupazione degli scienziati è che con la diffusione delle nuove varianti, proprio i più fragili non siano sufficientemente protetti dal contagio.

UN OSSO DURO
Il virus, ormai lo sappiamo, attacca le cellule usando come chiave la proteina spike, il bersaglio principale dei vaccini anti-covid e dei farmaci a base di anticorpi monoclonali. Benché i virus mutino continuamente, soltanto dall’inverno 2020 sono state individuate varianti con diverse mutazioni nei geni che codificano per la proteina spike, teoricamente pericolose perché potrebbero diminuire l’efficacia di vaccini e farmaci che prendono di mira proprio quell’obiettivo. Le varianti più sorvegliate, e anche quelle studiate nello studio, sono la B.1.1.7 (inglese), B.1.135 (sudafricana) e B.1.1.248 o P.1 (brasiliana), già individuate anche nel nostro Paese.

MAGGIORI QUANTITÀ
Gli scienziati per valute l’efficacia dei vaccini hanno messo a contatto virus delle tre diverse varianti con anticorpi del sangue di convalescenti da CoViD-19 o di persone che erano state immunizzate con il vaccino di Pfizer. Fortunatamente, per neutralizzare la variante Inglese è servita la stessa quantità di anticorpi necessaria per l’originale SARS-CoV-2. per le varianti brasiliana e sudafricana sono stati necessari anticorpi in quantità decisamente superiore, da 3 volte e mezzo a 10 volte più abbondanti.
(Salute, Focus)

I SINTOMI IN MEDIA 5,1 GIORNI DOPO L’ESPOSIZIONE AL VIRUS. “ECCO PERCHÉ LA QUARANTENA È DI 14 GIORNI”

Nuova analisi della Johns Hopkins University. La media dell’incubazione da coronavirus è 5 giorni. Ma la maggior parte dei casi mostra i sintomi entro 11 giorni.


I primi sintomi del coronavirus, a fine incubazione, iniziano in
media circa dopo 5,1 giorni dalla prima esposizione al virus. In pochissimi casi si sono manifestati oltre i due giorni dopo, nella maggior parte dei casi si manifestano dopo undici giorni: il valore medio è dunque stimato intorno ai 5 giorni.
E’ quanto affermano i ricercatori dell’Università americana Johns Hopkins in un articolo pubblicato oggi sulla rivista Annals of Internal Medicine.
Gli scienziati, che hanno studiato una serie di casi cinesi nel periodo di febbraio, hanno condotto una analisi sull’incubazione del Covid-19 e stabilito che il 97.5% delle persone che sviluppano sintomi di infezione da SARS-CoV-2 mostrerà questi sintomi entro 11,5 giorni dall’esposizione.
In pratica, scrivono gli esperti, ogni 10 mila persone messe in quarantena per due settimane solo 101 in media potrebbero sviluppare qualche sintomo dopo essere rilasciate dalla quarantena.
Per questo gli scienziati della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health indicano che il periodo di 14 giorni di quarantena usato per esempio nei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie per individui potenzialmente esposti da coronavirus è un “periodo di tempo ragionevole per monitorare gli individui e lo sviluppo della malattia”. In sostanza due settimane sono quelle necessarie (anche se ci può essere qualche caso extra, che va dunque oltre questo lasso di tempo) per rendersi conto di un possibile contagio. Per affermare ciò i ricercatori della Johns Hopkins, lo stesso istituto che da mesi ha diffuso e resa pubblica la mappa del contagio in tempo reale, hanno analizzato 181 casi provenienti soprattutto dalla Cina (zona Hubei) e rilevati prima del 24 febbraio. Per lo più si tratta di persone che potevano avere una idea del periodo del contagio, dato che avevano viaggiato da o verso Wuhan, città cinese considerata al centro dell’epidemia. Questi cittadini, secondo gli studi effettuati, mostravano in media un periodo di incubazione di 5,1 giorni.
Sono stati registrati il possibile periodo dell’esposizione, l’insorgenza dei primi sintomi, della tosse, della febbre, e grazie a ogni caso rilevato è stato creato un modello di distribuzione del periodo di incubazione. E’ emerso appunto che meno del 2,5% delle persone infette mostrava sintomi entro 2,2 giorni e più del 97% entro i 11,5 giorni. Per Justin Lessler, professore di epidemiologia della Johns Hopkins, “in base alla nostra analisi dei dati disponibili l’attuale raccomandazione di 14 giorni per il monitoraggio attivo o per la quarantena è un periodo ragionevole, anche se alcuni casi potrebbero andare oltre”. La stima accurata del periodo di incubazione potrebbe, chiosano gli scienziati, aiutare epidemiologi ed esperti a valutare meglio la dinamica e i meccanismi dell’epidemia e allo stesso tempo studiare, da parte dei funzionari di sanità pubblica, sistemi e misure efficace per la quarantena o l’isolamento, esattamente come sta avvenendo ora in Italia.
(Salute, La Repubblica)