fbpx

Archivio dei tag vaccino

La terza dose del vaccino Pfizer offre una protezione
quasi totale dal Covid

Dopo soli 7 giorni si arriva al 95,6% di protezione dalle infezioni e vale anche in presenza di variante Delta. In alcuni casi il richiamo non colma solo il calo dell’efficacia che si registra nel tempo, ma raggiunge valori più alti in assoluto

Il New England Journal of Medicine ha pubblicato giovedì il primo studio randomizzato di un richiamo Pfizer somministrato su 10.000 persone, controllato con placebo (il «gold standard» nella ricerca sui farmaci): finora c’erano state solo analisi prive di «gruppi di controllo», perciò con maggiori potenziali fattori di errore.

Alta efficacia dopo 7 giorni
I risultati di questa ricerca, presentati al Comitato consultivo della Food and Drug Administration, mostrano un’efficacia della terza dose pari al 95,6%, molto alta, con 5 casi di infezione da coronavirus nel gruppo vaccinato con la terza dose Pfizer, contro 109 contagi nel gruppo placebo (2 dosi Pfizer, più la terza con placebo). Le cifre ottimistiche sono rafforzate dal fatto che gli anticorpi neutralizzanti sono stati alti nei confronti di tutte le varianti, senza cali particolari verso le «peggiori», Beta e Delta. In più, per raggiungere la massima efficacia della terza dose si è visto che sono bastati solo 7 giorni.

Più di un quinto dei partecipanti allo studio aveva più di 65 anni, categoria più a rischio di Covid grave.

Anche il profilo di sicurezza del vaccino è rimasto «generalmente coerente» con i dati precedenti.

Si raggiunge una protezione che supera quella iniziale
I numeri dell’efficacia riguardano il contagio: la capacità dei vaccini di contrastare decessi e ricoveri è superiore al 90 % (e vicina al 100%) in ogni analisi anche «solo» con le due dosi di vaccino, ma la protezione verso le infezioni si indebolisce e cala dopo sei mesi, soprattutto nelle categorie maggiormente esposte, per cui si rende utile la terza dose.

Grazie a questo studio è possibile pensare che la protezione dopo la terza dose arrivi a essere quasi totale, un risultato ottimo se si pensa che i dati italiani dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) hanno misurato, a sette mesi dalla seconda dose nella popolazione generale, un’efficacia dell’89%, che cala ulteriormente in presenza di Delta e scende ancora nelle persone con comorbidità: dal 75% (dopo 28 giorni dalla seconda dose) al 52% dopo sette mesi. Anche l’efficacia contro l’infezione nelle persone sopra gli 80 anni e nei residenti delle Rsa diminuisce dopo sette mesi (anche se non sotto l’80%).

La terza dose a chi andrà?
In Italia la terza dose viene data, in ordine di priorità, a immunocompromessi, over 80, residenti nelle Rsa, personale sanitario, over 60 e fragili. Si sta pensando, però, a un’estensione alla fascia sotto i 60 anni, ma da gennaio. Il richiamo viene in ogni caso fatto con vaccino Rna. Marco Cavaleri, capo della divisione strategia vaccini dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA), ha affermato che l’agenzia valuterà i dati di questo studio per considerare l’ipotesi di ampliare la platea dei richiami, attualmente previsti per le fasce di popolazione più fragili. In Usa la FDA ha dato il via libera a qualsiasi cittadino ad alto rischio Covid per ricevere un’ulteriore dose di qualsiasi vaccino approvato.
(Salute, Corriere)


VACCINI Anti-COVID: QUANTO si è PROTETTI dopo una DOSE?

Un italiano su tre ha ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini contro il SARSCoV-2. Quale grado di immunità offre questa prima iniezione?

Al momento in cui scriviamo oltre 20 milioni di italiani hanno ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini anti-covid disponibili. In un periodo in cui occorre bilanciare l’aumentato rischio posto dalle riaperture con il sollievo di almeno una protezione parziale dalla malattia, quale copertura offre una singola dose dei vari tipi di vaccini? Riprendiamo qui una sintesi dei dati emersi sia nella fase finale dei trial (sperimentazioni) su larga scala, sia nel mondo reale, così come li riporta un articolo di recente uscito su Business Insider).

COME INTERPRETARE LA PERCENTUALE DI EFFICACIA
La percentuale di efficacia dei vaccini si riferisce alla proporzione di persone, tra i vaccinati, che acquisisce una protezione completa dopo un vaccino. L’80% di efficacia, quindi, significa che l’80% delle persone vaccinate sviluppa una protezione completa dalla malattia con sintomi e il 20% no. La seconda dose è comunque fondamentale: nelle persone che già dopo la prima acquistano una protezione completa, la seconda dose garantisce una migliore qualità e durata delle difese immunitarie. Tra chi dopo la prima dose non ha acquisito una protezione completa, alcuni la sviluppano dopo la seconda e alcuni no – ci sono persone che, per una compromissione del sistema immunitario, non mettono in campo difese sufficienti neanche da pienamente vaccinate.

VACCINO DI PFIZER-BIONTECH: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Secondo i documenti della FDA statunitense, basati sulle sperimentazioni di fase 3, il vaccino di Pfizer offre un’efficacia del 52,4% dalla covid con sintomi tra la prima e la seconda dose. Questa percentuale include però anche gli 11 giorni prima delle canoniche due settimane necessarie per innescare una risposta immunitaria adeguata, per cui l’efficacia dopo quella soglia potrebbe essere più alta. Secondo Stephen Evans, professore di statistica medica della London School of Hygiene & Tropical Medicine, gli studi nel mondo reale indicano in modo piuttosto chiaro che una singola dose di vaccino di Pfizer induce una protezione almeno dell’80% e probabilmente migliore del 90%, anche se non è chiaro cosa accada dopo i 21 giorni canonici per la seconda dose, perché questo non è stato pienamente testato. La protezione da ospedalizzazione e morte dovrebbe essere del 100% anche dopo la prima dose, anche se i numeri che giustificano questa affermazione sono molto piccoli.

VACCINO DI MODERNA: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Il vaccino di Moderna dovrebbe offrire un’efficacia del 69,5% tra la prima e la seconda dose, anche se questo valore include i 13 giorni prima del raggiungimento della protezione piena e dunque, la percentuale finale potrebbe essere più elevata. Non è chiaro quanto una singola dose protegga dai casi più gravi, perché poche persone nel gruppo di controllo hanno contratto la malattia in forma severa e non è possibile fare un confronto sensato. Durante i trial il 7% dei vaccinati non ha ricevuto la seconda dose: in queste persone la protezione dalla covid sintomatica è stata del 50,8% fino a 14 giorni dopo la prima dose e del 92,1% dopo 14 giorni. Anche in questo caso, per Evans i dati nel mondo reale mostrano un’efficacia di almeno l’80% e probabilmente migliore del 90% contro la malattia sintomatica dopo una singola dose, per 28 giorni (fino cioè al momento ideale del richiamo). Dopo quella soglia non ci sono dati disponibili.

VACCINO DI OXFORD-ASTRAZENECA: PIÙ DEL 70% DI EFFICACIA
Anche se i dati su larga scala per il vaccino di AstraZeneca sono più incerti, a causa dei diversi impianti sperimentali seguiti nei trial di fase 3, secondo un’importante revisione pubblicata a febbraio su Lancet, una singola dose avrebbe un’efficacia del 76% contro la covid sintomatica per almeno 90 giorni, mentre la protezione contro ricoveri e morte sarebbe del 100% (anche qui i numeri per un confronto sono però esigui). Per Evans, stando agli studi disponibili, una singola dose offre una protezione almeno del 70%, mentre dopo i 90 giorni non ci sono ancora dati a sufficienza.

VACCINO DI JOHNSON & JOHNSON: 66% DI EFFICACIA
Nei trial del vaccino monodose di Johnson & Johnson è stata controllata l’efficacia contro la malattia da moderata a grave e non contro la covid sintomatica come nelle sperimentazioni degli altri vaccini. Inoltre, i test di questo vaccino sono stati i primi a verificare anche l’efficacia contro le varianti. La protezione si innesca al 14esimo giorno e arriva al 66,1% di efficacia a 28 giorni. Le percentuali variano a seconda della variante prevalente: quando sono stati effettuati i test, negli USA l’efficacia era del 72%, in Sud Africa del 64%, in Brasile del 68%.

UNA SINGOLA DOSE RIDUCE DI MOLTO LA CATENA DEI CONTAGI
Oltre all’importanza di non essere direttamente contagiati c’è anche la possibilità, con il proprio vaccino, di proteggere familiari e amici non ancora vaccinati. Studi effettuati nel Regno Unito dimostrano che una dose dei vaccini di Pfizer e AstraZeneca riduce del 65% i contagi. Inoltre, anche chi viene contagiato contrae la malattia con una ridotta carica virale e corre un rischio dimezzato di trasmetterla a sua volta. Studi in corso nel Regno Unito, dove si sta diffondendo la variante indiana, mostrano però come per contrastare più efficacemente le varianti di coronavirus occorrano entrambe le dosi dei vaccini.
(Salute, Focus)

Perché ci sono Positivi anche tra i VACCINATI?

Su 10 immunizzati, almeno uno prende il virus lo stesso. “Ma nessuno in forma grave”.

Da quando è iniziata la campagna vaccinale si è detto di tutto e di più. Siamo stati travolti da un flusso infinito di informazioni contrastanti, in parte vere e in parte false. A essere messa in dubbio è stata anche l’efficacia dei vaccini e la loro stessa sicurezza. La verità è che sono ancora molte le domande che rimangono aperte, come ad esempio la durata dell’immunità offerta dal vaccino. Domande a cui la scienza potrà rispondere solo con il tempo. A molte altre invece abbiamo già una risposta, seppur parziale, che può essere utili e a chiarire alcuni dei più diffusi dubbi.

Perché ci sono vaccinati che risultano positivi?
“Il vaccino non è stato sviluppato per proteggere le persone dall’infezione, ma dalla malattia” spiega Massimo Andreoni, primario del reparto di Malattie Infettive del Policlinico di Tor vergata di Roma. Per cui può succedere che una persona vaccinata risulti positiva al test, anche se si tratterebbe comunque di un’eventualità non molto comune. Dai dati aggiornati sulla protezione dal’infezione asintomatica dei vaccinati emerge che solo 1-2 persone vaccinate su 10 rischiano di infettarsi. L’80-90% delle persone, quindi, risulta protetto anche dall’infezione asintomatica.

Un Vaccinato può ammalarsi gravemente?
“E’ davvero molto improbabile. i dati che abbiamo indicano che le persone vaccinate, con un qualsiasi dei tre vaccini attualmente approvati, hanno oltre il 90% di probabilità di non sviluppare forme gravi della malattia.

Chi si è vaccinato può contagiare gli altri?
“Anche in questo caso sarebbe molto improbabile. O almeno è così per gli altri vaccini che usiamo da ormai da tantissimo tempo. Perché per diventare contagiosi, è necessario che il virus si replichi un certo numero di volte. Se non lo fa perché si è vaccinati, di conseguenza né si sviluppa la malattia è né si diventa contagiosi.

Perché alcuni vaccinati non hanno anticorpi?
Succede, anche se in pochi casi, che dopo aver ricevuto il vaccino si risulti negativi al test sierologico. Ma non significa che il vaccino sia inutile. Il test sierologico individua gli anticorpi sviluppati a seguito della vaccinazione che si trovano in circolo nel sangue ma che non sono la sola misura dell’immunità di una persona al virus. Una persona quindi potrebbe non avere anticorpi visibili al test sierologico e avere lo stesso una memoria immunitaria del virus una volta che lo incontra: ci sono infatti delle cellule, responsabili della memoria immunologica, che si attivano e aggrediscono le cellule infette o producono anticorpi utili soltanto quando l’organismo viene esposto al virus contro il quale hanno “imparato a difendersi”.

Dura di più l’immunità dei guariti o dei vaccinati?
Non è stata ancora possibile determinare la durata dell’immunità, sia quella offerta da una precedente infezione che dal vaccino. Sappiamo però che gli anticorpi in circolo – a seguito dell’infezione possono durare meno rispetto a quelli stimolati dal vaccino. Questo comunque non esclude che il nostro sistema immunitario possa aver sviluppato una memoria non visibile al test sierologico anche in caso di guarigione.
(Salute, Il Messaggero)

Cos’è la TROMBOSI, e quali sono le CAUSE?

In questi giorni se ne è parlato per il sospetto che ci sia un legame tra casi di embolia e vaccinazione anti-Covid con il vaccino di AstraZeneca: ma non ci sono prove di quel legame. Ecco che cosa sono i trombi, perché si formano, e perché il vaccino AstraZeneca continua a essere ritenuto sicuro

Tutti i virus, incluso Sars-CoV-2, il coronavirus che causa il Covid, scatenano nell’organismo una reazione infiammatoria. Quella reazione può essere più o meno violenta. Quando si sviluppa un’infezione o un processo infiammatorio, il sangue aumenta la propria tendenza a coagulare e può succedere che si formino trombi nelle arterie e nelle vene, in qualunque parte del corpo. La trombosi arteriosa di solito si verifica a livello di arterie dove si è depositata la placca aterosclerotica (costituita da colesterolo, cristalli di calcio, cellule infiammatorie). Se la parete superficiale della placca si rompe, si forma un coagulo/trombo, che può diminuire o interrompere il flusso sanguigno. A seconda dell’arteria interessata, le conseguenze sono diverse: ictus ischemico, infarto o arteriopatia periferica.

I sintomi dell’ictus ischemico: debolezza o intorpidimento di faccia, braccia o gambe, soprattutto di un lato del corpo; confusione, difficoltà nel parlare e nel capire; problemi alla vista; vertigini, difficoltà a camminare; fortissimo mal di testa senza una causa apparente.

I sintomi dell’infarto cardiaco: dolore o senso di costrizione al centro del petto che può irradiarsi alle aree circostanti, mancanza di fiato, nausea, pallore, intensa sudorazione.

I sintomi dell’arteriopatia periferica: il sintomo più caratteristico è la «claudicatio intermittens», un dolore muscolare violento, che impedisce di camminare.

La trombosi venosa si verifica quando nelle vene si forma un trombo, che rallenta il flusso di sangue venoso verso cuore e polmoni. Interessa soprattutto le gambe, ma può riguardare anche braccia, vene addominali o cerebrali. Quando riguarda le vene profonde viene chiamata «trombosi venosa profonda« e questa, se non riconosciuta e curata, può causare l’embolia polmonare. I sintomi della trombosi venosa profonda sono dolore all’arto interessato (in genere la gamba), gonfiore e, a volte, arrossamento.

L’embolia polmonare si ha quando un embolo (nato dalla rottura di un trombo) viaggia nel sangue e viene spinto dal cuore nel sistema circolatorio polmonare, in alcuni casi provocando morte improvvisa. I sintomi più comuni dell’embolia polmonare: forte dolore al petto, difficoltà di respiro, tosse con tracce di sangue nel catarro e accelerazione o irregolarità del battito cardiaco. Questi sintomi vanno sempre indagati, soprattutto se si accompagnano a dolore o gonfiore a una gamba. Purtroppo non sono rari i casi in cui l’embolia polmonare non dà alcun segno di sé oppure si presenta solo con una strana sensazione di fiato corto e di fatica a respirare.

Le cause che predispongono alla tromboembolia venosa sono genetiche o transitorie (interventi chirurgici, ricoveri ospedalieri, allettamento e febbre, gravidanza, parto, terapie ormonali, tumori, chemioterapia). Anche la polmonite, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) e alcuni tipi di anemia su base ereditaria (come l’anemia falciforme) comportano un rischio aumentato, in particolare di tromboembolia polmonare. La tromboembolia venosa è, tra gli eventi cardiovascolari, la prima causa di morte nel mondo. In particolare, la tromboembolia polmonare colpisce 1-2 persone su mille ogni anno in Europa: su 100 persone colpite, 10 perdono la vita.

Perché si parla di trombosi
Negli ultimi giorni si è parlato di trombosi in relazione ad alcune decisioni prese da parte delle autorità del farmaco di diversi Paesi (tra cui l’Italia) di sospendere l’utilizzo di alcuni lotti del vaccino contro il Covid di AstraZeneca. In alcuni casi l’uso del vaccino è stato sospeso tout court, per alcuni giorni.

Ma ci sono prove di un legame tra l’uso del vaccino e gli eventi tromboembolici?
Secondo l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, «il numero di eventi tromboembolici nelle persone vaccinate non è superiore a quello osservato nella popolazione generale. Al 10 marzo 2021, sono stati segnalati 30 casi tra quasi 5 milioni di persone vaccinate con AstraZeneca nello Spazio economico europeo ». Secondo l’Oms, non c’è alcun motivo per smettere di somministrare il vaccino. L’Oms sta valutando le segnalazioni arrivate nei giorni scorsi, ma afferma che i benefici del vaccino superano i rischi e che finora non sono stati riscontrati casi di morte causati da vaccini anti-Covid. La stessa AstraZeneca ha sottolineato che, da un’analisi dei dati su oltre 10 milioni di somministrazioni, «non è emersa alcuna prova di un aumento del rischio di embolia polmonare o trombosi venosa profonda in qualsiasi gruppo di età, sesso, lotto o in qualsiasi Paese in cui è stato utilizzato il vaccino».

Quali sono le indagini in corso E le indagini, allora?
Occorre procedere con calma. In alcuni Paesi (Danimarca, Norvegia, Islanda) la campagna vaccinale è stata sospesa per alcuni giorni in via precauzionale. Altri Paesi (Austria, Estonia, Lituania, Lussemburgo e Lettonia) hanno sospeso l’uso dei vaccini provenienti da un solo lotto, ABV5300, non distribuito in Italia: ma hanno deciso di continuare a usare regolarmente tutti gli altri lotti di vaccino. In molti altri Paesi — dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania alla Spagna all’Italia — la campagna prosegue senza problemi. In Italia l’Agenzia del farmaco ha emesso — va ribadito: in via precauzionale — un divieto di utilizzo di un solo lotto, denominato ABV2856, distribuito in tutte le Regioni, dopo la segnalazione di «eventi avversi» per i quali non è ancora accertato alcun legame causale con il vaccino. Secondo i primi accertamenti — ma gli esami sono ancora in corso — quegli eventi erano legati a trombosi e coaguli del sangue. In tutti i casi sono state aperte inchieste. L’Ema — pur sottolineando che il rischio di coaguli di sangue non è maggiore nelle persone vaccinate rispetto alla popolazione generale — ha avviato delle indagini e sta esaminando tutti i casi segnalati. «Nessun nesso causa-effetto tra vaccino e trombosi» «La cosa che ha attirato maggiormente l’attenzione è il fatto che i soggetti erano in buona salute e abbastanza giovani, ma anche all’interno di quella fascia d’età ci possono essere casi di morte. Il tromboembolismo, che è la causa di morte più accreditata, ha una percentuale dello 0,007 per mille rispetto alla casistica vaccinale mondiale, sui dati che si stanno raccogliendo. Mi sento di tranquillizzare: in quella giornata, in quella fascia di età, quanti pazienti sono morti per trombosi? Questo va chiarito».
(Salute, Corriere)

VACCINI Anti-COVID: Perché Andranno Periodicamente Aggiornati

Gli anticorpi dei guariti e derivanti dai vaccini sono meno efficaci sulle varianti sudafricana e brasiliana: per neutralizzarle ne servono di più.

Per neutralizzare alcune delle nuove e diffuse varianti di coronavirus potrebbe servire una quantità di anticorpi maggiore di quella che proteggeva dalle passate infezioni. Pertanto gli anticorpi dei guariti, quelli sollecitati dai vaccini e i monoclonali potrebbero risultare meno capaci di proteggere dalle infezioni causate dalle nuove versioni del SARS-CoV-2. A lanciare l’allarme è uno studio (pubblicato su Nature Medicine) che dopo aver testato l’efficacia di anticorpi di diversa origine contro le tre principali varianti di coronavirus (Inglese, Sudafricana e Brasiliana) ha fatto intendere che potrebbe presto essere necessario aggiornare i vaccini di prima generazione.

NON ABBASTANZA
«C’è un’ampia variabilità nella quantità di anticorpi che una persona produce in risposta alla vaccinazione o all’infezione naturale. Ci sono persone che ne producono livelli molto elevati e risulterebbero probabilmente protetti anche dalle nuove varianti, ma altri, e in particolare penso ad anziani e immuno-compromessi, potrebbero non produrne abbastanza: se il livello di anticorpi necessari per essere protetti si decuplica, come indicano i nostri dati, allora potrebbero non averne abbastanza» La preoccupazione degli scienziati è che con la diffusione delle nuove varianti, proprio i più fragili non siano sufficientemente protetti dal contagio.

UN OSSO DURO
Il virus, ormai lo sappiamo, attacca le cellule usando come chiave la proteina spike, il bersaglio principale dei vaccini anti-covid e dei farmaci a base di anticorpi monoclonali. Benché i virus mutino continuamente, soltanto dall’inverno 2020 sono state individuate varianti con diverse mutazioni nei geni che codificano per la proteina spike, teoricamente pericolose perché potrebbero diminuire l’efficacia di vaccini e farmaci che prendono di mira proprio quell’obiettivo. Le varianti più sorvegliate, e anche quelle studiate nello studio, sono la B.1.1.7 (inglese), B.1.135 (sudafricana) e B.1.1.248 o P.1 (brasiliana), già individuate anche nel nostro Paese.

MAGGIORI QUANTITÀ
Gli scienziati per valute l’efficacia dei vaccini hanno messo a contatto virus delle tre diverse varianti con anticorpi del sangue di convalescenti da CoViD-19 o di persone che erano state immunizzate con il vaccino di Pfizer. Fortunatamente, per neutralizzare la variante Inglese è servita la stessa quantità di anticorpi necessaria per l’originale SARS-CoV-2. per le varianti brasiliana e sudafricana sono stati necessari anticorpi in quantità decisamente superiore, da 3 volte e mezzo a 10 volte più abbondanti.
(Salute, Focus)

Dopo il VACCINO: come capire se si è IMMUNI alla Covid?

In futuro avremo test immunitari per capire quando somministrare i richiami. Nel frattempo, è fondamentale non comportarsi come se si fosse immuni al virus.

Una volta ricevuto il vaccino, come faremo a sapere se siamo immuni alla covid? Tanto per cominciare, perché per liberarci dalla pandemia occorre comunque vaccinare il maggior numero di persone possibile, e concentrarsi sull’ampia protezione offerta dai vaccini: tutti quelli approvati finora, anche quelli con efficacia più ridotta, offrono una protezione pressoché totale contro le forme gravi e letali della malattia. In secondo luogo, perché anche da immuni non potremmo permetterci di abbassare la guardia finché la maggior parte delle persone non sarà vaccinata.

LE VARIANTI DEL VIRUS
Conoscere il livello di protezione immunitaria di ciascuno potrebbe però essere utile in una fase successiva, per valutare se e quando effettuare un richiamo o capire se i vaccinati siano anche protetti contro le varianti del virus. Come ci si sta muovendo, su questo fronte? Come spiegato sul New Scientist, alcuni test sierologici rapidi usati per individuare le infezioni naturali da coronavirus possono tornare utili per rintracciare gli anticorpi prodotti in risposta ai vaccini dopo tre settimane dalla prima iniezione (il momento in cui inizia a manifestarsi una risposta immunitaria).

I SIEROLOGICI NON BASTANO
La maggior parte di questi test ricerca gli anticorpi che rispondono alla proteina Spike e, una volta trovati, non riesce a distinguere tra anticorpi dovuti al vaccino o conseguenti a un’infezione. Alcuni, però, ricercano gli anticorpi che riconoscono la proteina virale del nucleocapside che non è contenuta nei vaccini, e quindi non registrerebbero la presenza di una risposta immunitaria conseguente al vaccino. Inoltre, i test commerciali hanno comunque un margine di incertezza, con un 10% di responsi “falsi negativi” (non registrano anticorpi anche dove ci sono), e un 2% di “falsi positivi” (li trovano, ma in realtà non ci sono). Un altro problema è che i test rapidi sierologici misurano semplicemente la presenza o l’assenza di anticorpima non la loro quantità che diminuisce nel tempo.

INDAGINI PIÙ COMPLETE
In futuro serviranno test rapidi che rivelino il livello di anticorpi nei vaccinati e la protezione che queste difese offrono contro le varianti del coronavirus. Alcune compagnie di biotecnologie nel Regno Unito e in Germania stanno lavorando a strumenti diagnostici che rilevino non solo gli anticorpi neutralizzanti ma anche le altre componenti chiave del sistema immunitario, come i linfociti T, che prendono di mira direttamente le cellule infettate dal virus, e i linfociti B della memoria incaricati di produrre anticorpi indirizzati contro specifiche proteine virali. Nel frattempo, neanche i vaccinati dovrebbero comportarsi da immuni. Finché non saremo usciti dalla fase critica della pandemia è prudente trattare tutti come persone suscettibili se non alla malattia, almeno al contagio e alla trasmissione. Non sappiamo in che misura i vaccini riducano anche la circolazione asintomatica del virus.

MASSIMA PRUDENZA
Proprio per questo il Ministero della Salute in Italia ha indicato che anche i vaccinati entrati in contatto con un positivo debbano mettersi in isolamento fiduciario per dieci giorni, ed effettuare un tampone di controllo prima di tornare alla vita “normale”. Anche i vaccinati potrebbero infatti risultare positivi, come osservato su alcuni sanitari già immunizzati con Covid ma del tutto asintomatici. Non sappiamo se un vaccinato contagiato possa trasmettere il virus a sua volta, ma non possiamo concederci questo rischio.
(Salute, Focus)

Covid, Locatelli: “Vaccino completamente protettivo dopo seconda dose”

La protezione immunitaria dall’infezione da virus SarsCoV-2 è completa solo dopo la somministrazione della seconda dose del vaccino anti Covid-19: lo rileva il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli.

“Negli articoli scientifici  – osserva – è chiaramente riportato che anche negli studi clinici si sono infettate persone dopo la prima dose proprio perché la risposta immunitaria non è ancora completamente protettiva. E lo diventa soltanto dopo la seconda dose. Questa è una delle ragioni per non abbandonare comportamenti responsabili dopo essere stati vaccinati“.  Locatelli ha commentato così il caso dell’infettivologa di Siracusa risultata positiva 6 giorni dopo aver ricevuto la prima dose di vaccino. Probabilmente la malattia era già in incubazione.

Fonte: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Covid-Locatelli-Vaccino-completamente-protettivo-dopo-seconda-dose-75561c25-8d04-4823-ac2d-a7999df31672.html

Perché il VACCINO ANTINFLUENZALE va ripetuto ogni anno?

A causa delle frequenti mutazioni, il virus influenzale potrebbe non essere riconosciuto dal sistema immunitario già pochi mesi dopo l’infezione

In Europa, i casi di influenza si verificano solitamente da gennaio alla prima metà di marzo, anche se questo arco di tempo può spostarsi avanti o indietro di qualche settimana. Al termine di questo periodo, il virus non scompare, ma continua a circolare spostandosi nell’emisfero boreale, dove inverno ed estate sono opposti rispetto alle nostre latitudini. I virus che causano l’influenza sono soggetti a cambiamenti (mutazioni) che li rendono sfuggenti. Per questo motivo, anche se si è contratta l’influenza in precedenza, non è detto che il nostro sistema immunitario sia in grado di riconoscere il virus che si ripresenta l’anno successivo. Questo meccanismo riguarda anche la vaccinazione antinfluenzale. Facciamo un esempio pratico. Durante la stagione invernale 2018-19, ricercatori ed epidemiologi hanno rilevato i ceppi influenzali circolanti più comuni in Italia e in Europa. Il vaccino per la stagione successiva (2019-20) è così stato prodotto nei primi mesi dell’anno 2019 per essere pronto alla distribuzione entro ottobre. Chi produce i vaccini, tuttavia, non è sempre in grado di prevedere con massima esattezza come il virus muterà e quali saranno i ceppi virali che colpiranno in futuro. Viene dunque effettuata una scelta ponderata e i vaccini prodotti proteggeranno contro i ceppi più probabili. Sebbene questo meccanismo non sia perfetto (l’efficacia potrebbe non essere del cento per cento), garantisce comunque una protezione molto buona all’interno della popolazione, specialmente per le fasce più a rischio come gli anziani. Inoltre, bisogna ricordare che i virus influenzali si diffondono seguendo leggi matematiche. Nel caso in cui gran parte della popolazione sia vaccinata, l’infezione non trova possibili candidati in cui propagarsi. Questo contribuisce a diminuire di molto le possibilità del virus di circolare (proteggendo i più deboli). Anche un’arma imperfetta, dunque, può essere importantissima per difenderci e difendere chi è più esposto.
(Salute, Fondazione Veronesi)

Covid e Prevenzione: come Potenziare i VACCINI per gli Anziani

Le strategie per rendere più efficaci i vaccini anti Covid nella popolazione di età avanzata, che ha un sistema immunitario meno efficiente

L’invecchiamento del sistema immunitario, che con l’avanzare dell’età perde il suo “smalto”, può in parte spiegare perché l’infezione da Covid abbia un impatto peggiore sugli anziani. Ma l’immunosenescenza ha anche un’altra conseguenza: la minore efficacia dei vaccini proprio sulla fascia di popolazione che più dovrebbe essere protetta. I vaccini hanno dunque un effetto minore nell’organismo degli anziani, e se questo problema è noto da tempo – è lo stesso per i vaccini antinfluenzali -sono oggi allo studio nuove strategie per affrontarlo.

PERCHÉ IL SISTEMA IMMUNITARIO DEGLI ANZIANI È MENO EFFICIENTE?
Come spiegato in un articolo su Nature, invecchiando si assottiglia la riserva di cellule immunitarie: diminuiscono i linfociti T non ancora differenziati incaricati di produrre i linfociti T della memoria, che hanno il compito di attaccare il patogeno e ricordare l’infezione a lungo; e diminuiscono i linfociti B, che producono anticorpi che si legano al patogeno e lo segnalano come target da distruggere. Le persone anziane tendono inoltre ad avere stati di infiammazione cronici che rendono l’organismo meno recettivo alle minacce esterne. Infine, c’è il problema delle cellule senescenti, le cellule che hanno smesso di dividersi ma non muoiono e che negli organismi anziani si accumulano, anziché essere eliminate dal sistema immunitario: un meccanismo che contribuisce all’infiammazione.

VACCINI PER GLI ANZIANI: COME RENDERLI EFFICACI
Anche se alcune sperimentazioni di vaccini anti-covid hanno iniziato a includere volontari anziani, questa popolazione di pazienti è spesso esclusa dai trial farmacologici per i rischi associati all’età e alle malattie preesistenti. Come fare allora, per rendere i vaccini efficaci anche in tarda età? Finora l’approccio principale è stato quello di contrastare i limiti del sistema immunitario maturo, per es. aggiungendo ai vaccini antinfluenzali sostanze che stimolino le difese immunitarie, o riservando alle dosi destinate agli anziani più alte cariche di antigeni (le proteine che simulano la presenza del virus e scatenano una risposta immunitaria).

COMBATTERE L’INVECCHIAMENTO ALLA RADICE
Ma alcuni scienziati pensano che esista un’opzione migliore, che consiste nel provare a “ringiovanire” il sistema immunitario, rendendolo allo stesso tempo più ricettivo ai vaccini e più preparato ad affrontare un’eventuale infezione. Un modo per farlo è attraverso una classe promettente di farmaci che inibiscono una proteina coinvolta nella crescita cellulare chiamata mTOR – uno dei tanti meccanismi biologici che contribuisce all’invecchiamento e al declino del funzionamento degli organi. Contrastare questa proteina estende la durata della vita nei topi e nei moscerini della frutta. Trial condotti sull’uomo prima della comparsa della covid suggeriscono che i partecipanti trattati con inibitori della mTOR contraggono meno infezioni gravi dai coronavirus del raffreddore e si rimettono più rapidamente. Anche un farmaco usato per trattare il diabete di tipo 2, la Metformina, ha un’attività che inibisce la mTOR. Diversi studi hanno mostrato che i pazienti con diabete – tra i più a rischio di gravi complicanze da covid – trattati con Metformina mostrano un minore rischio di ricovero ospedaliero per CoViD-19 e un minore rischio di mortalità.
(Salute, Focus)

Immunità dopo il Covid: ci si può Riammalare? Il caso Gaviria e gli effetti sul Vaccino

I casi di reinfezione da coronavirus esistono e a volte hanno generato una malattia più grave. Alcuni studi mostrano che gli anticorpi decadono dopo tre mesi: che cosa implicano per i futuri vaccini? Le risposte alle domande più comuni

Ci si può riammalare di Covid-19? La risposta è “sì”, ci si può riammalare di Covid-19, anche se è un evento molto raro. Su 40 milioni di persone abbiamo notizia certa di una ventina di casi confermati da analisi di laboratorio. Ovviamente esisteranno molte più persone che non sono “censite” e si sono riammalate, ma per ora la proporzione sembra veramente minima. «Se questo fosse un evento comune, avremmo visto migliaia di casi». Gli studi non sono facili: per decretare un caso di reinfezione, infatti, gli scienziati devono cercare differenze significative nei geni dei due coronavirus che causano entrambe le malattie.

Il caso del ciclista Gaviria
Ultimo caso di reinfezione in ordine di tempo, per notorietà, quello del ciclista Fernando Gaviria, lo sprinter sudamericano risultato positivo all’ultimo tampone molecolare nel secondo giorno di riposo del Giro d’Italia. Il colombiano fu, lo scorso marzo, il primo ciclista professionista al mondo a rimanere contagiato. La positività venne scoperta ad Abu Dhabi durante l’Uae Tour e il velocista fu costretto a una lunghissima quarantena in una struttura ospedaliera emiratina.

La seconda infezione può essere peggio della prima?
Sì, in alcuni casi lo è stata, come quello del 25enne del Nevada o quello (per ora unico) della donna morta dopo la seconda infezione, ma si trattava di una donna malata di tumore da tempo. Probabilmente stiamo sottostimando il numero di reinfezioni asintomatiche che potrebbero essere la maggioranza, ma ci sono sicuramente alcune persone che semplicemente non sviluppano buone risposte immunitarie a determinati agenti patogeni e che quindi, non sviluppando una buona memoria immunologica, possono essere reinfettate anche dopo breve tempo dallo stesso microorganismo. Sul perché a volte ci sia una malattia più grave in caso di reinfezione serviranno ulteriori indagini.

Per quanto tempo siamo immuni dopo aver contratto il Covid-19?
La maggior parte di chi si ammala di Covid-19 sviluppa anticorpi entro poche settimane. Le reinfezioni possono verificarsi per deficit qualitativi o quantitativi della risposta immunitaria, in alcuni casi dovuti a un’infezione troppo lieve cioè a bassa carica virale che quindi induce una risposta immunitaria limitata, in altri casi perché il sistema immunitario era compromesso da altri problemi di salute. Ma non sappiamo ancora per quanto tempo restiamo immuni, di sicuro in parte varia da persona a persona. Potrebbero essere mesi, quindi un tipo di immunità simile a quella che conferiscono gli altri coronavirus (come i raffreddori) oppure qualche anno come in chi aveva contratto il virus cugino della SARS1.

Due studi, uno pubblicato su Nature, giungono alla stessa conclusione: in alcuni soggetti la risposta anticorpale diminuisce dopo alcuni mesi e in alcuni soggetti gli anticorpi non sono neanche più rilevabili.

Gli asintomatici sono più a rischio reinfezione?
Il problema è che la stragrande maggioranza delle persone o non presenta sintomi o si ammala in modo blando: in questo caso non sappiamo se la risposta immunitaria indotta dall’infezione, di cui la presenza di anticorpi è una spia, sia davvero protettiva o se queste persone rischiano maggiormente una nuova infezione. Alcuni studi hanno mostrato che alcune persone, di solito i malati in modo lieve o asintomatico, hanno sviluppato un tipo di immunità diverso, l’immunità delle cellule T, una risposta che non viene rilevata dagli attuali test sierologici ma che potrebbe costituire una barriera immunologica contro il virus.

Chi si è già ammalato ed è guarito è soggetto agli stessi obblighi di chi non ha mai contratto il Covid-19?
Per questa incertezza sulla durata dell’immunità, chi ha già contratto il Covid-19 ed è guarito, dal punto di vista delle misure di contenimento in atto in Italia (e nel mondo) non ha obblighi diversi dalle altre persone: deve indossare la mascherina e deve essere sottoposto a tampone e quarantena nei casi disposti dalla legge.

L’immunità impedisce la trasmissione da coloro che vengono reinfettati?
Le persone che si infettando una seconda volta potrebbero essere anche contagiose, ma servirebbero studi più ampi per confermarlo
(corriere.it)