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PERCHÉ CON IL RAFFREDDORE
IL NASO PRODUCE TANTO
MUCO?

Attaccato da virus del raffreddore, il nostro organismo reagisce mettendo in campo strategie difensive per intrappolare gli agenti patogeni ed eliminarli.

L’aumentata produzione di muco nasale, per es., serve a intrappolare, trasportare all’esterno ed eliminare i virus responsabili della rinosinusite virale, ovvero il raffreddore comune, per premettere l’auto-detersione e igienizzazione delle alte e basse vie aeree che, solitamente, avviene in 5-7 giorni, risolvendo così il problema.
Anche la febbre è una delle strategie dell’organismo per annientare gli oltre 200 virus del raffreddore che, con l’aumento della temperatura corporea, muoiono. Tuttavia, queste strategie non sono sempre efficaci: può capitare che il nostro apparato di difesa non sia stato in grado di sconfiggere subito l’infezione perché è efficace, oppure perché non è stato aiutato in modo efficace. In questo caso, se nel raffreddore comune il muco è limpido e poco denso, quando le secrezioni diventano più viscose o verde-giallastre, la sensazione di naso chiuso peggiora, e può comparire dolore o senso di peso a carico delle ossa della faccia, il raffreddore comune diventa rinosinusite batterica. In questo caso è bene consultare lo specialista otorinolaringoiatra, per evitare le complicanze polmonari nei soggetti più a rischio come bambini e anziani, asmatici, iniziare una terapia adeguata con antibiotici e cortisone, favorendo la pulizia nasale con soluzione fisiologica.
(Salute, Humanitas)

VACCINI Anti-COVID: QUANTO si è PROTETTI dopo una DOSE?

Un italiano su tre ha ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini contro il SARSCoV-2. Quale grado di immunità offre questa prima iniezione?

Al momento in cui scriviamo oltre 20 milioni di italiani hanno ricevuto almeno la prima dose di uno dei vaccini anti-covid disponibili. In un periodo in cui occorre bilanciare l’aumentato rischio posto dalle riaperture con il sollievo di almeno una protezione parziale dalla malattia, quale copertura offre una singola dose dei vari tipi di vaccini? Riprendiamo qui una sintesi dei dati emersi sia nella fase finale dei trial (sperimentazioni) su larga scala, sia nel mondo reale, così come li riporta un articolo di recente uscito su Business Insider).

COME INTERPRETARE LA PERCENTUALE DI EFFICACIA
La percentuale di efficacia dei vaccini si riferisce alla proporzione di persone, tra i vaccinati, che acquisisce una protezione completa dopo un vaccino. L’80% di efficacia, quindi, significa che l’80% delle persone vaccinate sviluppa una protezione completa dalla malattia con sintomi e il 20% no. La seconda dose è comunque fondamentale: nelle persone che già dopo la prima acquistano una protezione completa, la seconda dose garantisce una migliore qualità e durata delle difese immunitarie. Tra chi dopo la prima dose non ha acquisito una protezione completa, alcuni la sviluppano dopo la seconda e alcuni no – ci sono persone che, per una compromissione del sistema immunitario, non mettono in campo difese sufficienti neanche da pienamente vaccinate.

VACCINO DI PFIZER-BIONTECH: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Secondo i documenti della FDA statunitense, basati sulle sperimentazioni di fase 3, il vaccino di Pfizer offre un’efficacia del 52,4% dalla covid con sintomi tra la prima e la seconda dose. Questa percentuale include però anche gli 11 giorni prima delle canoniche due settimane necessarie per innescare una risposta immunitaria adeguata, per cui l’efficacia dopo quella soglia potrebbe essere più alta. Secondo Stephen Evans, professore di statistica medica della London School of Hygiene & Tropical Medicine, gli studi nel mondo reale indicano in modo piuttosto chiaro che una singola dose di vaccino di Pfizer induce una protezione almeno dell’80% e probabilmente migliore del 90%, anche se non è chiaro cosa accada dopo i 21 giorni canonici per la seconda dose, perché questo non è stato pienamente testato. La protezione da ospedalizzazione e morte dovrebbe essere del 100% anche dopo la prima dose, anche se i numeri che giustificano questa affermazione sono molto piccoli.

VACCINO DI MODERNA: ALMENO L’80% DI EFFICACIA
Il vaccino di Moderna dovrebbe offrire un’efficacia del 69,5% tra la prima e la seconda dose, anche se questo valore include i 13 giorni prima del raggiungimento della protezione piena e dunque, la percentuale finale potrebbe essere più elevata. Non è chiaro quanto una singola dose protegga dai casi più gravi, perché poche persone nel gruppo di controllo hanno contratto la malattia in forma severa e non è possibile fare un confronto sensato. Durante i trial il 7% dei vaccinati non ha ricevuto la seconda dose: in queste persone la protezione dalla covid sintomatica è stata del 50,8% fino a 14 giorni dopo la prima dose e del 92,1% dopo 14 giorni. Anche in questo caso, per Evans i dati nel mondo reale mostrano un’efficacia di almeno l’80% e probabilmente migliore del 90% contro la malattia sintomatica dopo una singola dose, per 28 giorni (fino cioè al momento ideale del richiamo). Dopo quella soglia non ci sono dati disponibili.

VACCINO DI OXFORD-ASTRAZENECA: PIÙ DEL 70% DI EFFICACIA
Anche se i dati su larga scala per il vaccino di AstraZeneca sono più incerti, a causa dei diversi impianti sperimentali seguiti nei trial di fase 3, secondo un’importante revisione pubblicata a febbraio su Lancet, una singola dose avrebbe un’efficacia del 76% contro la covid sintomatica per almeno 90 giorni, mentre la protezione contro ricoveri e morte sarebbe del 100% (anche qui i numeri per un confronto sono però esigui). Per Evans, stando agli studi disponibili, una singola dose offre una protezione almeno del 70%, mentre dopo i 90 giorni non ci sono ancora dati a sufficienza.

VACCINO DI JOHNSON & JOHNSON: 66% DI EFFICACIA
Nei trial del vaccino monodose di Johnson & Johnson è stata controllata l’efficacia contro la malattia da moderata a grave e non contro la covid sintomatica come nelle sperimentazioni degli altri vaccini. Inoltre, i test di questo vaccino sono stati i primi a verificare anche l’efficacia contro le varianti. La protezione si innesca al 14esimo giorno e arriva al 66,1% di efficacia a 28 giorni. Le percentuali variano a seconda della variante prevalente: quando sono stati effettuati i test, negli USA l’efficacia era del 72%, in Sud Africa del 64%, in Brasile del 68%.

UNA SINGOLA DOSE RIDUCE DI MOLTO LA CATENA DEI CONTAGI
Oltre all’importanza di non essere direttamente contagiati c’è anche la possibilità, con il proprio vaccino, di proteggere familiari e amici non ancora vaccinati. Studi effettuati nel Regno Unito dimostrano che una dose dei vaccini di Pfizer e AstraZeneca riduce del 65% i contagi. Inoltre, anche chi viene contagiato contrae la malattia con una ridotta carica virale e corre un rischio dimezzato di trasmetterla a sua volta. Studi in corso nel Regno Unito, dove si sta diffondendo la variante indiana, mostrano però come per contrastare più efficacemente le varianti di coronavirus occorrano entrambe le dosi dei vaccini.
(Salute, Focus)

VACCINI Anti-COVID: Perché Andranno Periodicamente Aggiornati

Gli anticorpi dei guariti e derivanti dai vaccini sono meno efficaci sulle varianti sudafricana e brasiliana: per neutralizzarle ne servono di più.

Per neutralizzare alcune delle nuove e diffuse varianti di coronavirus potrebbe servire una quantità di anticorpi maggiore di quella che proteggeva dalle passate infezioni. Pertanto gli anticorpi dei guariti, quelli sollecitati dai vaccini e i monoclonali potrebbero risultare meno capaci di proteggere dalle infezioni causate dalle nuove versioni del SARS-CoV-2. A lanciare l’allarme è uno studio (pubblicato su Nature Medicine) che dopo aver testato l’efficacia di anticorpi di diversa origine contro le tre principali varianti di coronavirus (Inglese, Sudafricana e Brasiliana) ha fatto intendere che potrebbe presto essere necessario aggiornare i vaccini di prima generazione.

NON ABBASTANZA
«C’è un’ampia variabilità nella quantità di anticorpi che una persona produce in risposta alla vaccinazione o all’infezione naturale. Ci sono persone che ne producono livelli molto elevati e risulterebbero probabilmente protetti anche dalle nuove varianti, ma altri, e in particolare penso ad anziani e immuno-compromessi, potrebbero non produrne abbastanza: se il livello di anticorpi necessari per essere protetti si decuplica, come indicano i nostri dati, allora potrebbero non averne abbastanza» La preoccupazione degli scienziati è che con la diffusione delle nuove varianti, proprio i più fragili non siano sufficientemente protetti dal contagio.

UN OSSO DURO
Il virus, ormai lo sappiamo, attacca le cellule usando come chiave la proteina spike, il bersaglio principale dei vaccini anti-covid e dei farmaci a base di anticorpi monoclonali. Benché i virus mutino continuamente, soltanto dall’inverno 2020 sono state individuate varianti con diverse mutazioni nei geni che codificano per la proteina spike, teoricamente pericolose perché potrebbero diminuire l’efficacia di vaccini e farmaci che prendono di mira proprio quell’obiettivo. Le varianti più sorvegliate, e anche quelle studiate nello studio, sono la B.1.1.7 (inglese), B.1.135 (sudafricana) e B.1.1.248 o P.1 (brasiliana), già individuate anche nel nostro Paese.

MAGGIORI QUANTITÀ
Gli scienziati per valute l’efficacia dei vaccini hanno messo a contatto virus delle tre diverse varianti con anticorpi del sangue di convalescenti da CoViD-19 o di persone che erano state immunizzate con il vaccino di Pfizer. Fortunatamente, per neutralizzare la variante Inglese è servita la stessa quantità di anticorpi necessaria per l’originale SARS-CoV-2. per le varianti brasiliana e sudafricana sono stati necessari anticorpi in quantità decisamente superiore, da 3 volte e mezzo a 10 volte più abbondanti.
(Salute, Focus)

Dopo il VACCINO: come capire se si è IMMUNI alla Covid?

In futuro avremo test immunitari per capire quando somministrare i richiami. Nel frattempo, è fondamentale non comportarsi come se si fosse immuni al virus.

Una volta ricevuto il vaccino, come faremo a sapere se siamo immuni alla covid? Tanto per cominciare, perché per liberarci dalla pandemia occorre comunque vaccinare il maggior numero di persone possibile, e concentrarsi sull’ampia protezione offerta dai vaccini: tutti quelli approvati finora, anche quelli con efficacia più ridotta, offrono una protezione pressoché totale contro le forme gravi e letali della malattia. In secondo luogo, perché anche da immuni non potremmo permetterci di abbassare la guardia finché la maggior parte delle persone non sarà vaccinata.

LE VARIANTI DEL VIRUS
Conoscere il livello di protezione immunitaria di ciascuno potrebbe però essere utile in una fase successiva, per valutare se e quando effettuare un richiamo o capire se i vaccinati siano anche protetti contro le varianti del virus. Come ci si sta muovendo, su questo fronte? Come spiegato sul New Scientist, alcuni test sierologici rapidi usati per individuare le infezioni naturali da coronavirus possono tornare utili per rintracciare gli anticorpi prodotti in risposta ai vaccini dopo tre settimane dalla prima iniezione (il momento in cui inizia a manifestarsi una risposta immunitaria).

I SIEROLOGICI NON BASTANO
La maggior parte di questi test ricerca gli anticorpi che rispondono alla proteina Spike e, una volta trovati, non riesce a distinguere tra anticorpi dovuti al vaccino o conseguenti a un’infezione. Alcuni, però, ricercano gli anticorpi che riconoscono la proteina virale del nucleocapside che non è contenuta nei vaccini, e quindi non registrerebbero la presenza di una risposta immunitaria conseguente al vaccino. Inoltre, i test commerciali hanno comunque un margine di incertezza, con un 10% di responsi “falsi negativi” (non registrano anticorpi anche dove ci sono), e un 2% di “falsi positivi” (li trovano, ma in realtà non ci sono). Un altro problema è che i test rapidi sierologici misurano semplicemente la presenza o l’assenza di anticorpima non la loro quantità che diminuisce nel tempo.

INDAGINI PIÙ COMPLETE
In futuro serviranno test rapidi che rivelino il livello di anticorpi nei vaccinati e la protezione che queste difese offrono contro le varianti del coronavirus. Alcune compagnie di biotecnologie nel Regno Unito e in Germania stanno lavorando a strumenti diagnostici che rilevino non solo gli anticorpi neutralizzanti ma anche le altre componenti chiave del sistema immunitario, come i linfociti T, che prendono di mira direttamente le cellule infettate dal virus, e i linfociti B della memoria incaricati di produrre anticorpi indirizzati contro specifiche proteine virali. Nel frattempo, neanche i vaccinati dovrebbero comportarsi da immuni. Finché non saremo usciti dalla fase critica della pandemia è prudente trattare tutti come persone suscettibili se non alla malattia, almeno al contagio e alla trasmissione. Non sappiamo in che misura i vaccini riducano anche la circolazione asintomatica del virus.

MASSIMA PRUDENZA
Proprio per questo il Ministero della Salute in Italia ha indicato che anche i vaccinati entrati in contatto con un positivo debbano mettersi in isolamento fiduciario per dieci giorni, ed effettuare un tampone di controllo prima di tornare alla vita “normale”. Anche i vaccinati potrebbero infatti risultare positivi, come osservato su alcuni sanitari già immunizzati con Covid ma del tutto asintomatici. Non sappiamo se un vaccinato contagiato possa trasmettere il virus a sua volta, ma non possiamo concederci questo rischio.
(Salute, Focus)

Covid-19, letalità su casi confermati è del 2,4% nella seconda fase epidemica

Differenze tra regioni si riducono se si tiene conto della demografia e della diffusione del virus nel tempo

ISS, 1 febbraio 2021 – La letalità del Covid-19 in Italia nella seconda fase dell’epidemia è del 2,4%, più bassa rispetto a quella della prima fase durante la quale però l’accessibilità rallentata ai test diagnostici e la diversa distribuzione geografica dei casi potrebbero aver fornito un dato distorto. Il calcolo è contenuto in un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità appena pubblicato, dove sono presentate anche le stime a livello regionale e in riferimento alle diverse fasi dell’epidemia, da cui emerge che le differenze tra regioni appaiono meno evidenti alla luce delle differenze della struttura demografica e della diffusione dell’epidemia nel tempo. Secondo il report tra i casi confermati diagnosticati fino a ottobre, la percentuale di decessi standardizzata per sesso ed età (il cosiddetto ‘Case Fatality Rate o CFR) è stata complessivamente del 4,3%, con appunto ampie variazioni nelle diverse fasi dell’epidemia: 6,6% durante la prima fase (febbraio-maggio), 1,5% nella seconda fase (giugno-settembre) e 2,4% tra i casi diagnosticati nel mese di ottobre.

I dati regionali
Lo studio è stato condotto utilizzando il database dei casi COVID-19 confermati con test molecolare e notificati al sistema di sorveglianza da inizio epidemia (20 febbraio 2020) al 31 Ottobre 2020 dalle regioni/PA. In particolare, sono stati conteggiati i decessi avvenuti entro 30 giorni dalla diagnosi, e il CFR è stato calcolato standardizzando i tassi per tener conto delle differenze regionali nella struttura demografica della casistica.

Il CFR standardizzato presenta una variabilità a livello regionale, con i più alti valori osservati in Lombardia (5,7%) ed Emilia-Romagna (5,0%), mentre i livelli più bassi sono stati osservati in Umbria (2,3%) e Molise (2,4%). “Nell’interpretare le differenze regionali di CFR è importante tenere in considerazione la tempistica con cui l’epidemia si è manifestata nei diversi ambiti territoriali. L’epidemia ha colpito prevalentemente l’area settentrionale del Paese durante la prima ondata (febbraio-maggio), per poi estendersi più diffusamente sull’intero territorio nazionale nelle fasi successive – si legge nel documento – Questa disparità nella distribuzione dei casi nel tempo potrebbe spiegare parte delle differenze del CFR regionale riferite all’intero periodo esaminato”. Alcune delle differenze regionali che emergono dall’analisi condotta sull’intero periodo (febbraio-ottobre) appaiano infatti meno pronunciate e talvolta invertite quando i CFR regionali sono confrontati separatamente per ciascuna fase epidemica.

Il confronto con l’Europa
I dati disaggregati per sesso, classe di età e fase epidemica, così come analizzati in questo rapporto, non sono disponibili per altri paesi Europei e pertanto non è metodologicamente corretto eseguire un confronto del CFR per paese. È comunque opportuno notare che i CFR standardizzati utilizzando la popolazione europea standard come riferimento sono risultati inferiori a quelli calcolati usando come riferimento la popolazione Italiana residente. Questo suggerisce che la struttura per età relativamente più anziana della popolazione Italiana possa spiegare in parte le eventuali differenze con gli altri Paesi.

L’unico confronto possibile a livello internazionale è basato sull’eccesso di mortalità registrato durante l’epidemia rispetto allo stesso periodo degli anni precedenti. Le stime fornite da Eurostat riguardo la variazione percentuale dei decessi registrati nel periodo Febbraio-Ottobre 2020 rispetto a quelli registrati nello stesso periodo dei quattro anni precedenti mostrano come l’Italia, rispetto alla stima complessiva riferita ai 27 paesi membri dell’UE, abbia avuto, a eccezione della prima ondata epidemica, un eccesso di mortalità inferiore alla media Europea (13,1% vs 17,1% nel mese di ottobre).

Cos’è il Case Fatality Rate
In alcuni casi la letalità, ossia la proporzione di decessi che si verificano in una popolazione infetta, è stata calcolata utilizzando dati aggregati cumulati riferiti ai casi e decessi notificati a una certa data. Questa tipologia di stima può però risentire di distorsioni. Le stime puntuali e il loro confronto nello spazio e nel tempo possono ad esempio essere distorte da differenze e modificazioni nell’accessibilità ai test diagnostici. Ad esempio, una ridotta capacità di tracciamento di casi asintomatici conduce a una di sottostima della popolazione infetta esposta al rischio di morte e alla conseguente sovrastima della letalità. In questi casi, è più appropriato utilizzare il termine case fatality rate (CFR) che è calcolato esclusivamente sulla popolazione dei casi noti, ossia quelli diagnosticati e notificati. Inoltre, l’utilizzo di dati aggregati cumulati a una certa data non tiene conto dell’intervallo di tempo che intercorre tra la diagnosi e l’eventuale decesso. In questa circostanza, i casi per i quali l’infezione è relativamente recente da non aver ancora potuto manifestare eventuali complicazioni fatali sono conteggiati nella popolazione infetta a rischio di decesso, causando così una sottostima del CFR. Mentre il primo limite non può essere superato con i dati a disposizione, l’analisi presentata in questo rapporto è basata su dati individuali riferiti ai casi per i quali, tenuto conto di un possibile ritardo nell’aggiornamento delle informazioni, il tempo di osservazione del decorso clinico è stato di almeno 30 giorni dalla diagnosi.

Cliccando qui di seguito è possibile leggere per intero il rapporto dell’ istituto superiore di sanità CASE FATALITY RATE

Vaccino Covid 19: chi ha già avuto la malattia dovrà vaccinarsi?

Chi è già stato positivo al Covid-19 e l’ha sconfitto deve vaccinarsi? Ecco le risposte degli esperti italiani e stranieri.

Una delle domande più gettonate relative al vaccino anti-Covid 19 che sta per arrivare è: chi è già risultato positivo e ha superato la malattia deve vaccinarsi o è da considerarsi già immune? Gli esperti hanno provato a rispondere a questo interrogativo, ma per ora le risposte non sono concordanti.

In Italia su questo argomento oggi si è espresso il Prof. Giuseppe Ippolito, che è il direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma e ha detto:

Chi ha avuto il Covid non deve vaccinarsi contro la malattia perché ha sviluppato anticorpi naturali, semmai dovrà controllare il livello di questi anticorpi. E quando questi dovessero scendere, si può riconsiderare una vaccinazione.

VACCINO ANTI-COVID 19: BASSA PRIORITÀ PER CHI HA AVUTO IL VIRUS

Giuseppe Nocentini, immunofarmacologo dell’Università di Perugia, membro Società Italiana Farmacologia, al Corriere della Sera ha detto:

Al momento è opportuno che chi ha avuto la malattia non si vaccini. Sarà opportuno farlo solo una volta che avremo dati su questo sottogruppo di soggetti. In ogni caso questi pazienti hanno una bassa priorità: è ragionevole supporre che siano protetti da una re-infezione o, almeno, dalle complicanze dell’infezione

Nocentini ha spiegato meglio anche quello che ha detto Ippolito e cioè che bisogna fare un monitoraggio con i test sierologici per misurare gli anticorpi. Questo monitoraggio andrebbe fatto ogni tre mesi e il paziente potrebbe farlo da solo poi decidere se fare il vaccino oppure no, ma, secondo lo stesso Cnocentini, è un’opzione poco raccomandabile.

Il Corriere della Sera ha sentito anche Sergio Abrignani, ordinario di Patologia generale all’Università Statale di Milano e direttore dell’Istituto nazionale di genetica molecolare Romeo ed Enrica Invernizzi. A lui, in particolare, è stato chiesto cosa dovrebbe fare chi non sa se ha effettivamente avuto il Covid, perché potrebbe essere rimasto sempre asintomatico. Abrignani ha risposto:

Ci sono due tipi di persone: chi ha avuto il Covid e lo sa e chi ha avuto il Covid ma non lo sa, perché l’ha preso in forma asintomatica. Circa metà delle persone che hanno fatto il Covid non sanno di averlo fatto, soprattutto in zone come la Lombardia. Dato che non faremo il sierologico a tutti quelli che vacciniamo, è ovvio che avremo una parte di popolazione vaccinata che ha già fatto l’infezione. Non c’è alcuna evidenza immunologica per ora che chi ha avuto l’infezione naturale non si debba vaccinare, anzi potrebbe essere un potenziamento della risposta immunitaria. La maggior parte dei vaccini prevede più dosi: potremmo considerare l’infezione naturale come la prima dose e quindi, dove sapessimo di una precedente positività al Covid, fare il primo vaccino come fosse la “seconda dose”, una volta sola.

Abrignani dunque introduce l’ipotesi di farsi somministrare una sola dose, invece delle due previste e comunque resta dell’opinione che, per sicurezza, anche chi è già stato malato andrebbe vaccinato, ma aggiunge:

Certamente non avrebbero la priorità, come scelta dal punto di vista logistico, ma dal punto di vista immunologico non c’è nessun problema. Anche perché non sappiamo quanto dura l’immunità naturale e mi sembra più complesso andare a misurare gli anticorpi di chi ha fatto infezione, rispetto a vaccinare queste persone. Succede anche per le altre vaccinazioni, l’epatite B e altre infezioni. Il vaccino influenzale lo facciamo anche a chi ha fatto l’influenza.

Proprio quello dell’immunità naturale è uno dei grandi dubbi che attanagliano gli scienziati, ma anche il vaccino stesso, come ha confermato il consigliere scientifico del Ministro della Salute per la pandemia da coronavirus e rappresentante dell’Italia in seno al Consiglio Esecutivo dell’OMS Walter Ricciardi“darà probabilmente solo un’immunità temporanea e non permanente, quindi ci dovremo vaccinare più volte”.

NEGLI USA ANCORA DUBBI SUL VACCINO PER CHI È GIÀ STATO MALATO

La stessa domanda se la sono posta negli Stati Uniti e il Centers for Disease Control and Prevention, nelle sue FAQ sul coronavirus, risponde:

Non ci sono abbastanza informazioni attualmente disponibili per dire se o per quanto tempo dopo l’infezione qualcuno è protetto dal COVID-19 grazie a quella che si chiama immunità naturale. Le prime evidenze scientifiche suggeriscono che l’immunità naturale da COVID-19 potrebbe non durare molto a lungo, ma sono necessari ulteriori studi per capirlo meglio. Fino a quando non avremo un vaccino disponibile e il Comitato consultivo per le pratiche di immunizzazione non fornirà raccomandazioni al CDC su come utilizzare al meglio i vaccini COVID-19, il CDC non può dire con certezza se le persone che hanno già avuto il COVID-19 debbano fare il vaccino anti-COVID-19 oppure no.

ANTHONY FAUCI: “FATE IL VACCINO ANCHE SE AVETE GIÀ AVUTO IL COVID”

Sempre restando negli Stati Uniti, colui che è considerato il massimo esperto in materia, il Dottor Anthony Fauci, tanto odiato da Donald Trump, ha detto che secondo lui è meglio che anche chi ha già avuto la malattia si faccia vaccinare e ha spiegato:

La decisione finale spetterà alla FDA, perché sappiamo che c’era una certa percentuale di persone che erano nella sperimentazione del vaccino che avevano prove di essere state precedentemente infettate. Quindi dobbiamo vedere quale è stato il risultato per quegli individui. Penso che sia del tutto lecito pensare che non dovrebbe esserci alcuna restrizione nei confronti di coloro che hanno prove di essere stati infettati.

Inoltre anche Fauci ha detto che non ci sono certezze sulla durata dal vaccino e ha commentato dicendo che sarebbe sorpreso se durasse 20 anni, ma sarebbe altrettanto sorpreso se durasse meno di un anno, perciò crede che la durata possa essere di più di un anno, ma chiaramente per ora non c’è certezza.

Fonte: https://www.blogo.it/post/vaccino-covid-19-per-chi-lo-ha-gia-avuto

PRIMA DEL CORONAVIRUS: LE PANDEMIE ED EPIDEMIE DAL ‘900 A OGGI

COVID-19 è l’ultima di una serie di pandemie che, dal Novecento a oggi, hanno sconvolto il nostro pianeta: dall’influenza spagnola all’epidemia SARS, dall’Ebola alla influenza aviaria, nell’ultimo secolo sono state molte le epidemie, la maggior parte delle quali sconfitte grazie al lavoro di ricercatori e medici di tutto il mondo.

L’influenza spagnola
L’influenza spagnola è stata un’epidemia influenzale che, nel biennio 1918-1920, ha causato la morte di quasi 50 milioni di persone. Il numero è impressionante anche perché a conti fatti la Prima Guerra Mondiale, altamente sanguinosa, aveva causato la metà delle vittime. Il primo caso fu registrato negli Stati Uniti, ma la pandemia prese il nome di “Influenza spagnola” a causa della forte censura di guerra che, all’epoca, i giornali di tutto il mondo stavano attuando. I giornali spagnoli furono semplicemente i primi a parlare di pandemia, e così si credette che fosse limitata, appunto, alla sola Spagna. Il virus influenzale, poi, si espanse con facilità insieme alle truppe sui fronti, facilitata dalla scarsa condizione igienica in cui i soldati erano costretti a vivere. Questo virus è considerato l’antenato dei 4 ceppi di influenza: A, A/l’H1N1 e A/H3N2, e del virus A/H2N2. Questi virus hanno circolato fino al 1977, quando l’H1N1 è riemerso causando un’ altra epidemia, chiamata influenza Russa, che si diffuse rapidamente colpendo soprattutto i giovani con meno di 25 anni con manifestazioni cliniche lievi, anche se tipicamente influenzali.

L’influenza Asiatica
Comparsa nella penisola di Yanan, in Cina, nel 1957, la pandemia asiatica è stata generata da un virus influenzale A, l’H2N2. L’influenza asiatica ha causato circa 2 milioni di morti ed era di origine aviaria: questo significa che il virus era presente negli uccelli e poi è stato trasmesso all’uomo.

La pandemia del 1968
Nel 1968 ci fu un’altra pandemia influenzale, generata a Hong Kong, dal sottotipo H3N2. La pandemia, che si diffuse in tutta l’Asia, non ebbe gravi conseguenze in Europa quanto negli Stati Uniti. Questo accadde grazie al fatto che uno dei due antigeni di cui era composto il virus aveva già colpito, 11 anni prima, la popolazione asiatica, che aveva sviluppato l’immunità. In tutto la pandemia del 1968 causò oltre un milione di vittime.

L’HIV
L’HIV è stata probabilmente la pandemia più importante della nostra storia recente, e ha ucciso più di 25 milioni di persone. L’HIV (virus dell’immunodeficienza umana) non è di per sé un virus letale: nella pratica, provoca un progressivo indebolimento del sistema immunitario, attaccando e distruggendo i linfociti CD4, un particolare tipo di globuli bianchi responsabili della risposta immunitaria dell’organismo fino a renderlo vulnerabile nei confronti di altri virus, batteri, protozoi, funghi e tumori. I primi casi registrati sono del 1981 e il virus ha colpito tutti i Paesi, in modo particolarmente grave quelli del Terzo Mondo. Il virus si trasmette principalmente in tre modi: per via sessuale, tramite rapporti non protetti; per via ematica, tramite il sangue; per via verticale, ossia da madre al figlio durante il parto o attraverso l’allattamento In base alle conoscenze attuali, HIV è suddiviso in due ceppi: 1. HIV-1 2. HIV-2. Il primo dei due è prevalentemente localizzato in Europa, America e Africa centrale. HIV-2, invece, si trova in Africa occidentale. Attualmente non esistono cure per l’eradicazione dell’infezione da HIV. Il trattamento dell’infezione da HIV consiste in un controllo del virus attraverso una combinazione di farmaci che blocca la replicazione del virus, riducendo carica virale e conseguentemente la distruzione del sistema immunitario.

La SARS
Il 2003 è l’anno della SARS (Sindrome Acuta Respiratoria Grave), una forma atipica e particolarmente grave di polmonite, che uccide immediatamente 800 persone. La SARS ha avuto origine in una provincia cinese ed è stata scoperta da un medico italiano, Carlo Urbani, morto della stessa malattia. In totale, da novembre 2002 a luglio 2003, la SARS ha determinato 8096 casi in 17 Paesi, con un tassi di letalità del 10%.

L’influenza suina
Nel 2009 ci fu un nuovo allarme pandemia: l’influenza suina, causata da un virus del ceppo H1N1, ha causato migliaia di morti e centinaia di migliaia di contagi. Il virus si è particolarmente sviluppato nel continente americano e ha colpito prevalentemente uomini adulti in buona salute. L’infezione si trasmette da uomo a uomo per via aerea, come le comuni influenze: l’assunzione di carne di maiale non comporta la possibilità di contrarla.

L’Ebola
L’Ebola è stata scoperta nel 1976 nella Repubblica Domenicana del Congo e nel Sudan e, nel 2014, è stata riscontrata una nuova ondata di epidemia. Si tratta di un virus a RNA, che colpisce principalmente l’uomo e i primati, ma ne sono portatori anche i pipistrelli da frutta e causa una febbre emorragica che si trasmette attraverso fluidi corporei. La mortalità è molto elevata: se non curata immediatamente, si calcola una percentuale di decessi del 50-90%.

L’importanza della Ricerca
Le epidemie si possono contrastare insieme, grazie a uno strumento prezioso: la Ricerca. È grazie alla Ricerca, infatti, che abbiamo terapie e vaccini contro alcune delle malattie più pericolose che hanno sconvolto il nostro Pianeta. Solo acquisendo informazioni sul virus e conoscendolo a fondo possiamo agire. Al momento conosciamo molto poco le risposte immunitarie nei confronti del Coronavirus SARS-CoV-2 che causa Covid-19: non sappiamo, ad es., se gli anticorpi siano protettivi né quanto duri la memoria immunologica. E non sappiamo con certezza se la nostra prima linea di difesa (l’immunità innata e che da sola gestisce ed elimina più del 90% dei virus e batteri che incontriamo) funzioni e possa essere attivata anche nei confronti del Coronavirus. Per questi motivi anche la Ricerca Humanitas si è attivata coordinando diversi studi basati proprio sulla relazione tra sistema immunitario e Coronavirus SARS-CoV-2 con l’obiettivo di mettere a punto nuovi strumenti di diagnosi della malattia.
(Salute, Humanitas)

Perché il VACCINO ANTINFLUENZALE va ripetuto ogni anno?

A causa delle frequenti mutazioni, il virus influenzale potrebbe non essere riconosciuto dal sistema immunitario già pochi mesi dopo l’infezione

In Europa, i casi di influenza si verificano solitamente da gennaio alla prima metà di marzo, anche se questo arco di tempo può spostarsi avanti o indietro di qualche settimana. Al termine di questo periodo, il virus non scompare, ma continua a circolare spostandosi nell’emisfero boreale, dove inverno ed estate sono opposti rispetto alle nostre latitudini. I virus che causano l’influenza sono soggetti a cambiamenti (mutazioni) che li rendono sfuggenti. Per questo motivo, anche se si è contratta l’influenza in precedenza, non è detto che il nostro sistema immunitario sia in grado di riconoscere il virus che si ripresenta l’anno successivo. Questo meccanismo riguarda anche la vaccinazione antinfluenzale. Facciamo un esempio pratico. Durante la stagione invernale 2018-19, ricercatori ed epidemiologi hanno rilevato i ceppi influenzali circolanti più comuni in Italia e in Europa. Il vaccino per la stagione successiva (2019-20) è così stato prodotto nei primi mesi dell’anno 2019 per essere pronto alla distribuzione entro ottobre. Chi produce i vaccini, tuttavia, non è sempre in grado di prevedere con massima esattezza come il virus muterà e quali saranno i ceppi virali che colpiranno in futuro. Viene dunque effettuata una scelta ponderata e i vaccini prodotti proteggeranno contro i ceppi più probabili. Sebbene questo meccanismo non sia perfetto (l’efficacia potrebbe non essere del cento per cento), garantisce comunque una protezione molto buona all’interno della popolazione, specialmente per le fasce più a rischio come gli anziani. Inoltre, bisogna ricordare che i virus influenzali si diffondono seguendo leggi matematiche. Nel caso in cui gran parte della popolazione sia vaccinata, l’infezione non trova possibili candidati in cui propagarsi. Questo contribuisce a diminuire di molto le possibilità del virus di circolare (proteggendo i più deboli). Anche un’arma imperfetta, dunque, può essere importantissima per difenderci e difendere chi è più esposto.
(Salute, Fondazione Veronesi)